Questa è una storia di proiettili e granate, di bunker sporchi e umidi, di una lingua ruvida e spigolosa. “Alè”, penserete, “un altro gioco sulla 2a guerra mondiale. Yawn”.
E’ vero, nella nostra carriera di videogiocatori abbiamo ucciso talmente tanti soldati tedeschi che cominciano addirittura a starci un pò simpatici, facendoci talvolta dimenticare il ruolo di spietati carnefici che la storia ci ha insegnato hanno rivestito. Ma trattenete per un attimo gli sbadigli, in quanto Velvet Assassin possiede nella sua faretra un paio di frecce che potrebbero destare il vostro interesse.
L’energia T scorre fluente nelle terre di Ancaria, la vita essa crea, ed accresce, ci circonda e ci lega, illuminati noi siamo, non questa grafica grezza! Tu devi sentire l’energia intorno a te. Qui! Fra te, me, l’albero, il Grifo, la pietra, dovunque! Ora che mi viene in mente, ma non era un virus? Mica si arriverà lì!? O peggio ancora a Mr T… No, perché non ho davvero mai visto una narrazione del genere, un frastornante concerto di peti a strappo senza capo né coda che non si capisce davvero dove voglia andare a parare. E sopratutto perché. O per chi. O perché mai non avrebbe dovuto farlo vista la struttura del gioco apri-quest-random/chiudi-quest-random, quindi di cosa parliamo?
Sony ad Uncharted ci tiene. Sarà perché è dei Naughty Dog, sarà perché ha venduto bene, sarà perché ha ricevuto consensi unanimi sui forum, specie per quanto riguarda il comparto tecnico, ma Sony ci tiene. Alla conferenza in occasione dell’E3 il seguito è stato una delle prime cose mostrate e la reazione è stata decisamente positiva. Ma qual era il limite di Uncharted? Un’avventura in bilico fra Tomb Raider e gli shooter in terza persona, alla Gears of War o Resident Evil, per quanto bella non può diventare un vero fenomeno di massa, qualcosa dalla portata simile ad un Halo, che coinvolga l’utenza a lungo termine e la leghi al brand. La direzione presa con questo seguito, quindi, è chiarissima: multiplayer sparacchino.
Chi si cela veramente dietro a Plants VS Zombies? Com’è nata Popcap? Anzi, cos’è Popcap? Meglio, CHI E’ Popcap? Chi se l’è mai cagata prima di Peggle, oltre a Mauz? Perchè vende così tanto sbattendosi così poco? Come fanno a darti quella sensazione tipo “questa roba se la potrebbe giocare anche mio cugino di 8 anni ma io la gioco in modo pro” con ogni loro titolo? Eccovi svelato il mistero buffo di una software house che ci sta riempiendo i pc di cose sbarluccicose e faccine sorridenti, coloro che hanno elevato il concetto di teletubbies a intelligente intrattenimento videoludico a basso costo.
Quella che state per leggere è la sbobinatura di una conversazione rubata ai due figli di Satana, il signor Pop e il signor Cap.
Uno dice Naughty Dog e già partiamo male. Tornano subito alla mente la piattezza mortale di Jak & Dexter (il primo, non sono andato oltre), la faccia di culo da toporagno cocainomane di Crash (sì lo so che era un Bandicoot, ma l’avete mai visto il bandicoot vero?), ai più vecchietti verrà pure in mente Way of the warrior.
Insomma partiamo male, appunto, ma questo Uncharted - Drake’s Fortune, dalla prima volta che lo presentarono -ovviamente in forma di target render- aveva un qualcosa che mi ha attirato. Forse il protagonista così chiaramente anonimo da risultare simpatico, spiccando addirittura per originalità in un contesto di mascotte kawaii e archetipi machisti (inoltre è il clone di Mike Delfino, un valore aggiunto per un casalinguista), o forse il fatto che di avventurone di questo genere (punto su cui torno fra poco, e che -in effetti- sarà il centro di questo breve riesame) ormai se ne vedono poche, escludendo la popputissima Lara, che sta vivendo -pare- una seconda giovinezza, ma ha anche abbondantemente rotto il cazzo.
Di poche cose una è chiara: non siamo sul pezzo. Non ci interessa, o non ne siamo in grado, oppure ce la tiriamo, poco cambia. Va benissimo così.
Resta il fatto che ci si ritrova -come me, in questo momento- nella difficile posizione di chi dice “ma che cazzo la scrivo a fare una recensione di Resident Evil 5 (da ora in poi Biohazard[1]) che se lo son già giocato tutti?“.
Il secondo passo a questo punto, dopo avere adeguatamente svuotato due sessantasei di birraccia cinese ed essersi letto questa recensione del romanzo di Baglioni, è: “sticazzi, peggio non posso fare, e poi chi se ne frega, mica siamo Igienne, abbiamo delle cose da dire qui, non ci limitiamo a descrivervi quello che potete vedere anche da voi“.
Errore mio. Ma siamo qui e andiamo avanti.
Perché di un’opera teatrale stiamo parlando, del più atipico degli Zelda, del controverso Majora’s Mask, riproposto in questi giorni sull’inutile hardware Nintendo tramite Virtual Console.
Majora non nasce come Zelda, e nemmeno come gioco classico. Infatti, laddove nel canone l’eroe parte per il suo viaggio e progressivamente si evolve fino a completare la sua missione finale, qui l’eroe prima di tutto cade. E cade perché dobbiamo capire che le regole di questo gioco non sono le solite. In Majora’s Mask non ci sono nemesi goffe che risparmiano l’eroe e lo fanno crescere fino a renderlo invincibile, non vi è un mondo fittizio, uguale giorno dopo giorno, disposto a dare all’eroe tutto il tempo necessario a diventare abbastanza forte per salvare il mondo.
Sì può vincere una partita persa? Per quanto riguarda Zack Snyder, la risposta è sì. Watchmen sul grande schermo è una partita che non si può nemmeno sognare di vincere. In partenza. Moore ti odierà nel momento in cui accetti l’incarico. Uno stuolo di fanboy brancolanti come zombie (ops, ho toccato un altro tasto dolente?!) non aspetta altro che vedere il film, per poter dire quanto sia sbagliato. In partenza, anche questa volta. Perché l’assoluta fedeltà richiesta prima della visione può diventare ugualmente la critica più affilata alla fine dei titoli di coda. Snyder ha perso, perché ha osato mettere mano dove la mano non andava messa. Un film di Watchmen è impossibile. Da 408 pagine di graphic novel d’annata trasudano una miriade di contenuti, di situazioni di piani di lettura e di riferimenti che a fatica riescono a stare tra le pagine: in effetti, paiono nascondersi e rivelarsi con parsimonia di lettura in lettura. Proprio qui risiede la sconfitta in cui si imbarca Snyder: Watchmen funziona -con la precisione meccanica di un orologio realizzato con amore dall’artigiano- solo nel suo medium.
Il buon pavel, nell’articolo su Flower che trovate poco sotto a queste righe, si chiedeva se ci fosse spazio nel mercato videoludico per offerte inconsuete, fuori dai classici standard dei videogiochi, senza la pretesa di proporre sovrastrutture consolidate e rassicuranti, ma al contrario con lo scopo di rendere tangibile una visione, uno spunto, un concept semplice per qualcosa sì di interattivo, ma che non vedesse inquinata la propria freschezza dall’opulenza delle produzioni odierne, non certo sostenibili da qualsiasi idea.
NobyNoby Boy è la nuova creazione di Keita Takahashi, il papà di Katamary Damacy, e si inserisce esattamente in questa fascia di mercato.
Ci perdoni il grande Battiato per la fine citazione, ma il titolo era d’obbligo. I ragazzacci dell’Essex sono tornati a massacrare i nostri sound system. Tra i pochi sopravvissuti del mitico movimento techno anni 90, loro non sentono la crisi e tornano sul palco con pochissime rughe e inaspettata grinta. Il nuovo lavoro si chiama Invaders Must Die, ed è una dichiarazione d’intenti fin dal titolo. Un attacco ai cloni che hanno lucrato sul marchio di fabbrica della band, quella miscela balorda di elettronica, punk, hyperproduzione e una gran voglia di divertirsi.
Il Donovan che scrive Catch the Wind nel 1965 mica lo può immaginare che due anni dopo gli avrebbero dato del figlio dei fiori. Eppure quando il tempo arriva, e annusata la potenza mediatica del movimento più autocompiacente della storia sociale, non se la sente di rifiutarne l’etichetta, anzi. E’ così che arriva a incidere il suo album più debole, quell’A Gift from a Flower to a Garden che i That Game Company usano come concept per Flower. Un concetto quindi, un’idea, un piccolo squarcio su ciò che potrebbe diventare un giorno, tra tutte le altre cose che già è, questo media.