Ai Margini https://blog.aimargini.com Sulla tutela, il gameplay, la funari e altre cose. Wed, 05 Jun 2013 07:37:21 +0000 http://wordpress.org/?v=2.6.1 en Luigi’s Mansion: Dark Moon https://blog.aimargini.com/?p=5480 https://blog.aimargini.com/?p=5480#comments Wed, 05 Jun 2013 07:25:41 +0000 JackNapier https://blog.aimargini.com/?p=5480 Luigi’s-Mansion-Dark-Moon-Artwork-3

C’è una casa fatta di case, e ogni casa è un dedalo di situazioni che si susseguono nei corridoi, nelle stanze, sulle rampe di scale: puzzle, rebus, scherzi e giochi di specchi, assieme a situazioni puramente arcade con trial, statistiche e medagliette. C’è un protagonista che è la fusione tra l’ispettore Clouseau e Charlot, che usa un aspirapolvere per acchiappare i fantasmi, guidato da uno scienziato squinternato uscito direttamente da un film di Mel Brooks. E poi c’è un direttore geniale, che controlla dall’alto ogni dettaglio sulla scena rendendolo perfetto, dal bilanciamento del gameplay ai tempi comici di ogni gag.

"Manchester"

"Manchester"

Luigi’s Mansion 2 non ha bisogno di chissà quali presentazioni. È il seguito di un gioco accolto come minore, ma che ha saputo toccare il cuore degli appassionati come solo un capolavoro può fare. Ed è con il peso di un titolo di punta che arriva su 3DS. I Next Level Games prendono e migliorano le meccaniche del predecessore, aggiungendo una consistente varietà di situazioni, rendendole allo stesso tempo più adatte al supporto handheld. Shigeru Miyamoto è un capomastro che li guida da lontano, col giusto compromesso tra bastone e carota, e che li istruisce sui suoi modelli di gameplay, narrazione ed estetica. Sicché Luigi diventa un’avventura che interseca gli adventure e i metroidvania, sfiorando persino i territori zeldiani. Praticamente un mix di caccia al tesoro, action e puzzle-adventure. Ma sono le trovate spiazzanti, veri sprazzi di genialità, a far emergere l’impronta del Miya, come il tiro a bersaglio mentre si sta effettuando una caccia al tesoro in una stanza infestata di fantasmi. Il tutto bilanciato alla perfezione e conluigis-mansion-2-dark-moon-toad-screenshot-thumbs-up una struttura che non viene mai a noia. L’architettura a livelli ne segmenta la fruizione, perché per forza discontinua deve essere l’attenzione che si può dedicare a un gioco portatile. Funziona, perché Luigi è un gioco opulento, c’è fin troppa roba in pentola, e, come un testo verboso, necessita una suddivisione in paragrafi. Persino l’idea di dedicarne uno apposta per i boss, al termine di ogni capitolo, si rivela azzeccata. L’idea è di farne scontri memorabili. Quindi via gli anonimi fantasmi-boss del primo Luigi’s Mansion, dentro dei boss “grossi”, scenografici, e strutturati anch’essi come puzzle in movimento, da studiare e disinnescare.

Un unico appunto si può muovere al gameplay: la facilità con cui si possono sbloccare tutti i - pochi - potenziamenti del Poltergust 5000. Una progressione più lesinata e l’aggiunta di qualche ulteriore gadget, con conseguenti nuove dinamiche, avrebbero assicurato un coinvolgimento e un’imprevedibilità maggiori per tutta la durata dell’avventura.

Completa la planimetria un multiplayer immediato, divertente e longevo. Tre modalità lo caratterizzano: “Cacciatore”, “Tempo” e “Poltercuccioli”, tutte ambientate in un arena multipiano (di 5, 10 o 25 piani). La modalità “Cacciatore” coinvolge 4 giocatori nella cattura di tutti i fantasmi di un livello generato casualmente. “Tempo” è una corsa alla ricerca dell’uscita del livello entro un tempo limite. L’obiettivo di “Poltercuccioli”, infine, è di rintracciare i piccoli cani fantasma nascosti nei piani.

Luigi’s Mansion 2 fa compagnia a Super Mario 3D Land sul podio di miglior gioco su 3DS (sta diventando un palco piuttosto affollato), inaugura l’”anno di Luigi”, e si impone come must have per ogni videogiocatore degno di tal nome. Astenersi sonari e nintendari di cartone.

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Layton, a beautiful mind https://blog.aimargini.com/?p=5446 https://blog.aimargini.com/?p=5446#comments Tue, 23 Apr 2013 07:09:24 +0000 JackNapier https://blog.aimargini.com/?p=5446 Le pubblicano col ritmo di un capitolo all’anno - forse anche di più, se consideriamo gli spin-off. Eppure, le avventure del professor Layton si confermano ogni volta come giochi di ottimo livello. Sono puzzle-game, con trame avvincenti e uno stile grafico che fa l’occhiolino ad Hergé. Certo, mai belli quanto il primo episodio “Il professor Layton e il paese dei misteri”, anche per i ben noti limiti della riscrittura - su tutti la prevedibilità. Questo perché il plot segue più o meno lo stesso schema in tutti gli episodi: una lettera informa Layton di un mistero; cominciate le indagini, il caso si complica; Layton e il suo assistente Luke indagano, interrogano i sospetti, raccolgono indizi; la vicenda raggiunge il suo climax al momento del confronto finale, al quale segue la risoluzione del caso. Un giallo deduttivo nella forma più classica, che già di suo è una sfida razionale allo spettatore/giocatore.

Quello però che le storie del professor Layton fanno è spingere questa razionalità all’estremo, estendendola anche allo stile narrativo e al gameplay. Tanto per cominciare, il protagonista ci viene presentato come un incrocio tra Indiana Jones e Sherlock Holmes, col carattere edulcorato di Tin Tin. Il professore è un archeologo in una Londra sospesa tra antico e moderno, dai tratti vagamente steampunk. Tuttavia, il suo acume e la sua passione per gli indovinelli lo portano spesso ad uscire dal suo campo per aiutare la polizia con la risoluzione di casi complicati. Non è un detective - non ufficialmente - ma ne ha tutti i crismi: un metodo di indagine “scientifico”, capacità abduttive formidabili, una mente lucida e razionale. Da Sherlock Holmes ha ereditato anche i comprimari: Luke Triton, un sidekick al quale tiene come un figlio; un commissario incapace, ostile in un primo momento, poi amico fidato; e un Moriarty malefico e intelligente quanto l’originale, impersonato da Don Pablo. Ma c’è una caratteristica del personaggio più nascosta delle altre che lo rende davvero affascinante e forse unico. È una cosa che balza all’attenzione dal prologo di ogni storia, dove persino una lettera o una cartina urbanistica diventa un rebus, con un messaggio da decifrare. Ogni situazione viene esaminata e decostruita, gli elementi vengono spolpati e astratti, perché la loro struttura possa adattarsi a situazioni simili, più o meno complesse. È la visione che il prof. Layton ha delle cose. Una mente che filtra la realtà, la scompone fino al più piccolo frammento dotato di significato, all’interno del quale scorge un riflesso dell’universo che lo circonda. L’interpretazione di ogni singolo puzzle lo porta più vicino alla conoscenza del “Tutto” e, nel particolare, della soluzione del caso. Ed è attraverso questa visione della realtà che avviene la narrazione. La superiorità del primo atto della serie sta tutta nel valore metaforico degli avvenimenti del paesino di Saint-Mystère, dove la vita è stata riprodotta artificialmente da un alchimista e controllata da un tecnico che osserva gli avvenimenti da una torre è un complesso di rimandi filosofici e politici a Jeremy Bentham e il suo Panopticon, nonché alle tematiche delle opere di Philip K. Dick. Cosa che inevitabilmente riporta il giocatore ad interrogarsi sulle solite questioni “cos’è la vita?”, “cos’è reale”, “cos’è Dio?”. Ciò che accade nel borgo arriva a collimare perfettamente con ciò che accade nella mente del professore. Un sistema che funziona come un gigantesco carillon, dove ogni piccolo ingranaggio è parte fondamentale dell’intero meccanismo. La stessa narrazione procede meccanicamente, partendo dai bordi, raccogliendo indizi sui pezzi più prossimi che costituiscono la cornice dei fatti, per arrivare, incastro dopo incastro, al nocciolo del puzzle e centro del labirinto, dove ci attende il confronto con il guardiano. A questo punto, il potere del videogioco e della sua “interattività con la finzione” dovrebbe portare a un’ulteriore riflessione. Se provassimo a lacerare il velo, ci renderemmo conto di essere tutti noi dei Layton, e che non è solo il “gioco del professor Layton” ad imprigionarci con i suoi indovinelli: ogni gioco che giochiamo è un labirinto dove le vie di fuga e gli ostacoli da superare sono il progresso nella narrazione, un filo di lana scelto dagli autori tra tanti gomitoli. E dove ogni parete che ci sbarra la strada e ogni vicolo cieco è una possibilità “ludico-narrativa” che è stata scartata dal game designer, unico vero dungeon master, osservatore del Panopticon, tessitore di inganni.

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Fire Emblem: Awakening https://blog.aimargini.com/?p=5462 https://blog.aimargini.com/?p=5462#comments Wed, 17 Apr 2013 11:11:51 +0000 LPf https://blog.aimargini.com/?p=5462 Il punto più alto toccato da una consolina che non sembra voler o poter fissare un apice assoluto in questo suo continuo, sorprendente crescendo…

Partiamo subito da una cosa che va gridata senza scomodare troppo il Mauz, con questo gioco il 3DS butta realmente a video un nuovo modo di fare grafica. Fare proprio nel senso di comporre, assemblare – quindi restituire a video. E’ il gioco a strati. Pare un libro di quelli per bimbi che apri e si creano le figure, in primo piano le scritte, subito dietro la bitmap dei vari personaggi che prendono la parola, dietro ancora gli effetti, dietro ad essi modelli poligonali, quindi background e così via, tutta una serie di strati più o meno equidistanti uno sovrapposto all’altro dal sicuro impatto scenico - ma non è tanto questo a creare un sorprendente effetto wow. E’ il fatto che a sovrapporsi ed amalgamarsi sia un potpourri di poligoni, bitmap e filmati, avvicendantisi costantemente in un tutto unico multistratificato e tronfio di effetti che grida in maniera brutale come niente potrà mai uscire come esce sul display del 3DS. E’ in buona sintesi una sorta di contributo “fisico” al concetto di grafica che nessun hardware – per quanto performante - potrà mai replicare.

Il tutto sorvolando sul fatto che il design di quello che si agita a video sia anche meraviglioso - ma questo è giusto un corollario. Sotto questo aspetto la grossissima sorpresa è proprio Nintendo, nella fattispecie Intelligent Systems. Non pare nemmeno un loro gioco in termini di caratterizzazione artistica complessiva, quantomeno è impossibile non notare come si sia assolutamente al di sopra non tanto degli standard della serie, quanto di quelli di un genere che storicamente ha esaltato maestri nipponici del calibro di Enix e Squaresoft, ma anche di Masaya e Sega fra quelli più meritevoli di un richiamo. Viceversa la profondità del giocato ti fa capire subito come sia dannatamente un gioco Intelligent Systems, che  - è doveroso ricordarlo – con un’idea di Shozo Kaga e la bravura di Toru Narihiro  inventò il genere 23 anni or sono proponendo il primo, originale Console Strategy RPG, riscrivendo un genere fino ad allora apparso unicamente a occidente del mondo su home & personal computer. Col mix di strategia, sviluppo dei personaggi in stile RPG e le storie a tema medievaleggiante del primo Fire Emblem Ankoku Ryu to Hikari no Tsurugi  (The Dragon of Darkness and Sword of Light) per Famicom (NES), Intelligent Systems avrebbe profondamente influenzato l’intera produzione nipponica, ieri, mentre oggi realizza davvero qualcosa di egualmente straordinario, andando ad innalzare quello stesso genere, nato con quello stesso brand, a livelli di eccellenza onestamente imprevedibili.

Non m’interessa parlarvi della profondità sublime delle meccaniche e dell’eccezionale componentestrategica, v’impaurirei inutilmente. Fire Emblem è un gioco Nintendo, e come tutti i giochi Nintendo è pensato per poter essere approcciato da tutti, approfondendolo più o meno, lasciandosi istruire e aiutare finché ce n’è bisogno. L’apprendimento è graduale ma per niente invasivo, in quanto i tutorial avvengono tutti nel display inferiore senza interrompere mai il giocato, peraltro i neofiti possono beneficiare di svariati aiuti che, assurdo a dirsi, non impoveriscono l’esperienza di gioco se non in modo incidentalissimo. Il prodotto ha un carattere eccezionale che snocciola costantemente in situazioni, personaggi e dipanarsi delle vicende, ma anche una cura maniacale non solo nella sua realizzazione complessiva quanto nel suo perdersi fin nel dettaglio più fatuo dell’ultima delle statistiche dell’ultimo dei submenu. Per richiamare atmosfere nineties da rivista patinata, ha l’effetto vintage di generare dipendenza con tanto di notti insonni come non succedeva dai tempi di Master of Magic. Io sono un giocatore annoiato, vecchio e con la soglia di attenzione oramai di un roditore, è praticamente impossibile che superi l’ora di gioco se non gioco in multiplayer, ma stanotte ho staccato perché oramai non leggevo più le scritte, e lo credo bene visto che erano quasi le 5:00. Peraltro c’hanno voluto benissimo segando via qualsiasi controllo touch e permettendoci d’impugnare la console con entrambe le mani, a mo’ di libro, perché è in quel modo che va approcciato: rigorosamente sotto la copertina… Peccato solo non sia uscito quest’inverno…

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Lo zen e l’arte della manutenzione del 3DS. https://blog.aimargini.com/?p=5406 https://blog.aimargini.com/?p=5406#comments Fri, 29 Mar 2013 12:24:47 +0000 LPf https://blog.aimargini.com/?p=5406

Posto – come sempre - che niente sarà più come il MegaDrive, il portatilino maledetto ti ha riacceso proprio quel tipo di fiamma che credevi spenta per sempre, ma non è tutto oro quel che luccica…

La tua cameretta una ventina d’anni fa e passa… Pace. Asilo. Un antro più atomico di quello del Dr. Manhattan, tutta agghindata stile quella del ragazzino yankee protagonista del filmissimo anni ’80, drappini, drapponi, drappetti e poster fantasy alle pareti, il casino infernale dell’acquario di Elliot che maledicevi ogni notte appena spenta la luce, fumetti e giornaletti infarinati di polvere impilati ovunque, un computer col quale bramavi ancora di scatenare una guerra termonucleare globale, l’ultimo numero di Consolemania buttato sul letto che come un erotomane non leggevi subito solo per farti gonfiare la libido, i colori metallici e la grafica idrofoba del MegaDrive scatenanti una tempesta d’odio e insofferenza nell’amico povero che per rivalsa sarebbe diventato ricchissimo e potentissimo… Giocare non era solo giocare, era anche contemplazione, quietivo, una sorta di autoerotismo asessuato, compiacimento, possesso del tuo spazio - fuori dallo spazio. Purtroppo non dal tempo, quello passava.  Oggi sei indebitato a vita perché hai comprato una casa dove la tua donna si dimena fra il dettaglio shabby chic e il mezzanino dallo charme nordico, paccottaglia lontana eoni dalla valenza ben più che opzionale del tuo poster coi personaggi di Street Fighter effigiati in un’aula di scuola con Chun-Li professoressa e Cammy in castigo… Ma all’improvviso accade l’impossibile, senti lo sparo secco, le orecchie che fischiano. E come per magia sei finito nella macchina del tempo. Nintendo lancia l’ennesimo portatile, quei portatili che non ti facevano impazzire nemmeno all’epoca, hai aperto distrattamente l’astuccio, acceso la console e – boom - ti sei trovato catapultato di nuovo nella tua cameretta, senza capacitarti di come o perché, ma era successo…

Sorvolando sui contorni magici e il rinnovato alone mistico che avvolge l’offerta del 3DS, sul come abbia toccato sostanzialmente le medesime corde nella stragrande maggioranza degli emarginati Ai Margini, il 3DS ha dei limiti lindo-salubri tutt’altro che da sottovalutare. Non ha la rogna poverino, ma quel display è più bisunto di una pantegana, più viscido di un mamba nero, e più ti dimeni per farlo risplendere come uno Swarovski più s’impiastriccia, stria e inzacchera, compromettendo del tutto la sua scintillante resa visiva e il tuo equilibrio mentale già incasinato da quel piccolo principio di autismo. Appena apri un 3DS la prima cosa che ti colpisce è il nero lucido del display, ecco subito l’inganno, la trappola, come una donna bellissima, solare e ammaliante che nasconde matematicamente un animo putrido, lui ti mostra il suo volto acciecante ma dopo due giorni è completamente guasto, corrotto. E’ per questo che mi sento in dovere di condividere le mie infinite conoscenze in materia, sorvolando su mesi di prove e controprove, fallimenti e bestemmie che hanno portato al raggiungimento della perfezione matematica della pulizia di quel cristallo.

Iniziamo con l’ovvio, retroilluminazione a manetta (5) e risparmio energetico disattivato, il mio consiglio è quello di giocare sempre tenendo la console sulla base di ricarica che ti fornisce un ulteriore step a livello di retroilluminazione (spingendo oltre il suo limite la brillantezza dell’immagine) e veniamo alle dolenti note. Il 3DS XL si pulisce infinitamente meglio nello schermo superiore in quanto sprovvisto di bordature, ma presenta le solite problematiche a livello di untuosità sul lungo periodo, nonché le medesime magagne nel touch screen. Per pulire il touch screen munitevi di uno spazzolino da denti con le setole morbide e andate delicatamente sui contorni. Una volta puliti questi (come minimo servono due giri per rimuovere qualsiasi corpo estraneo) il vostro migliore alleato sarà l’alito che troppe volte nella vita vi è stato avverso: alitate abbondantemente sullo schermo inferiore e ripulite con un panno antistatico, il mio consiglio è di non usare quelli per occhiali e nemmeno quelli specifici per il 3DS, ma di utilizzare quello più poroso che si trova in dotazione con qualsiasi TV HD, plasma, LED o LCD che sia.

La procedura non vale per il display superiore, anzi, non alitateci mai sopra e non avvicinateci nemmeno lo spazzolino più morbido del mondo, non usate liquidi per cristalli né soluzioni detergenti, nemmeno quelle specifiche per i display. Per lo schermo superiore il vostro miglior alleato sarà il dentifricio, meglio se particolarmente pastoso e con pasta rigorosamente bianca. Ora procuratevi un kit di pulizia Meliconi per TV, apritelo, gettate tutto quello che contiene e con le forbici ritagliate il pollice del guanto come indicato nel riquadro nero. Mettetelo da una parte.  Quel materiale è unico al mondo, più poroso e compatto di qualsiasi panno antistatico in commercio, in più è imbottito di morbida gommapiuma cosa assolutamente discriminante. Con l’indice della mano con sopra una puntina di dentifricio andate a cospargere l’intero schermo superiore tracciando piccoli cerchi concentrici, usate una delicatezza inusitata, mi raccomando. Quando lo schermo sarà completamente velato di bianco e la pasta inizierà a seccare inumidite un panno antistatico nell’acqua e rimuovete pazientemente il dentifricio, serviranno come minimo due passaggi. Ora siete pronti per incappucciarvi l’indice e il medio nel ritaglio del guanto, quello che originariamente ne costituiva il pollice, e iniziate a strofinare il display, tratti brevissimi ma con una buona pressione (non abbiate paura) finché non sarà completamente lucido da abbagliare. E ora accendetevi una sigaretta e guardatelo in controluce: sinceri, quante volte nella vita avete goduto in questo modo?

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Due letture di Dishonored. https://blog.aimargini.com/?p=5360 https://blog.aimargini.com/?p=5360#comments Mon, 29 Oct 2012 09:28:58 +0000 JackNapier https://blog.aimargini.com/?p=5360

Molti ne parlano con toni entusiastici, altri ne criticano un’eccessiva brevità: aggiungiamo sproposito allo sproposito con una doppia recensione ai margini, e quindi definitiva, del gioco dell’anno (poiché unico).

Dishonored nasce come felice fusione di una serie di approcci al videogioco singolarmente già rispettati: c’è la parte Arkane molto attenta al come si percepisce la fisicità e il combattimento corpo a corpo, un’altra parte di ex del team di Deus Ex che ha a cuore la libertà concessa al giocatore in un sistema ben congegnato, e infine c’è il futurbanista (e direttore artistico, presumo) Antonov, caro ai più per la guerra dei mondi sloveni di Half Life 2.

Tutto questo ha portato a un gioco effettivamente valido e che nelle prime ore, appena superata la missione-tutorial, sembra fare tutto nel modo corretto per farsi amare persino da un cagacazzi come il sottoscritto. In primis la città dipinta, uno steampunk in stato di grazia davvero poco usuale in questo media, che tanto avrebbe da dare in termini di fantasia e che invece sempre più spesso si ritrova schiacciato negli stilemi di una fantascienza muscolare e del fantasy post-tolkeniano. A Dunwall convivono la carta da parati e l’energia ricavata dall’olio di balena, le insegne illustrate dei locali retrò e le guardie sui trampoli elettrificati, le anatomie deformi della working class inglese e le imponenti architetture fasciste, i vestiti sfarzosi della nobiltà e stormi di nervose pantegane. Dicevo “città dipinta” non a caso: l’approccio al lato estetico è stato quello di favorire la matericità delle pennellate in un rendering pastoso, vivo e colorato, operazione largamente incompresa dalla generazione Crytek ma che inevitabilmente farà scuola.

In questa città al giocatore (lasciando perdere la trama, che non merita alcun approfondimento) viene data relativa libertà d’azione: ambienti di gioco esplorabili a piacimento, una serie di poteri che aiutano e determinano quest’esplorazione e una libertà decisionale che riguarda aspetti sostanziali del giocato e di cui è possibile verificare le conseguenze nel mondo stesso. Non è una libertà totale, ovviamente impossibile, ma un ventaglio ben progettato di opzioni che unito alla piacevolezza del gameplay e alla bellezza estetica concretizza un matrimonio di valori che ha spinto qualcuno alle lacrime.

Purtroppo quest’idillio non dura fino in fondo: a un certo punto Dishonored smette di essere Crysis e diventa Crysis 2: via i quartieri, gli ambienti diventano sempre più simili a corridoi da affrontare linearmente, la sensazione di essere un’anomalia in un sistema viene meno e ad essa si sostituisce il solito rollercoaster di eventi e situazioni inevitabili, con giusto qualche bivio a mantenere un collegamento con la prima parte. A questo si unisce una IA che fa le bizze e che talvolta persino bara per mettere un freno a un protagonista che, con l’acquisire dei poteri, diventa obiettivamente indomabile, e che porta a una certa delusione, anche in concomitanza con l’esposizione di una trama prevedibile e goffa e di qualche calo di tiro.

Dishonored mostra il fianco, ed è un peccato perché avrebbe potuto rappresentare una milestone non inferiore allo stesso capolavoro Valve, ma questo non toglie che sia un titolo di valore con soluzioni brillanti e che per una buona parte rimanga una goduria a giocarsi e a vedersi.

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L’acquisizione di Arkane da parte di Zenimax finalmente ha un senso. Dishonored arriva col suo carico di aspettative e non ne canna nessuna. È il ruggito del pc gaming che ritorna? Non ci interessa. È l’accozzaglia di trovate più belle si possa sperare di trovare in un videogioco.

Partiamo dalla prima: Steampunk. Quanto è figo questo sotto-genere? E perché è così poco sfruttato? Dishonored ne è un’ode: un pastrocchio cronologico di Art Nouveau, mood Vittoriano, fabbriche che avvelenano l’aria, pistole a colpo singolo, sciabole e “costumi” seicenteschi (sic); mixato assieme a un po’ di Teslapunk (o Whalepunk?), che non fa mai male. C’è poi quel modo scientifico di trattare la magia, senza enfatizzarla troppo, come se fosse una scienza smarrita nel tempo. C’è chi lo chiama Low Fantasy. Il tutto sporcato da un’impronta weird. Non unirà tutti nel consenso, meglio: vuol dire che ha carattere. La città.Dunwall è protagonista di Dishonored come City 17 lo è di Half Life 2. Non per nulla l’architetto è lo stesso: Viktor Antonov, art designer, specializzato ormai in urbanistica distopica. Non c’è niente di più bello che affezionarsi a luoghi e personaggi, integrarsi in quel microcosmo e vivere la sindrome da distaccamento una volta finito tutto. Quando tutto è così ispirato e curato nei dettagli viene facile innamorarsene. E non importa se la sceneggiatura è un po’ così: in giochi come questo non conta cosa si dice, ma il come, e quanto diverte. Dishonored è un’”avventura aperta”. Vi vengono date abilità, indicazioni, obiettivi, e carta bianca sul tipo di approccio. Ogni area è una matassa di situazioni che va sbrogliata con attenzione. Ogni azione richiede pianificazione. Lanciarsi diretti contro i nemici non paga quasi mai. Starsene invece accucciati in un angolo, prendersi il tempo che occorre, osservare i percorsi delle guardie, sfruttare ogni tocco di classe del meraviglioso level design. Quindi partire con l’azione, come in un meccanismo di precisione. Meglio si riesce ad incastrare le azioni, più si viene ripagati in termini di soddisfazione. Ma l’imprevisto c’è sempre. Una guardia ferma a orinare proprio dove siete nascosti, una sirena non vista, un’asse che fa rumore al nostro passaggio. In quel momento, il protagonista diventa Pac-Man: in un labirinto di viottoli e ripari, in attesa di un momento favorevole per sopraffare le guardie/fantasmini. Non fatevi condizionare nella condotta, il gioco non spinge in nessuna direzione. C’è solo il Caos, che rimescola fatti, luoghi e protagonisti come carte dei tarocchi. Sicché Tizio lo ritroverete in posto Tal dei Tali piuttosto che dove ve lo aspettavate. Una catena di “correzioni in corsa”, che si ripercuotono sulla diegesi e sull’epilogo. Più che di “avventura aperta”, allora, si può parlare di “avventura combinatoria”, come Deus Ex Human Revolution, ma ancora più raffinata.

Se proprio bisogna trovargli difetti, questi arrivano tutti nel finale: moscio e inutilmente annacquato, gira a vuoto senza incidere mai. Dettagli.

JackNapier

]]> https://blog.aimargini.com/?feed=rss2&p=5360 AM presenta Day Z: Vita da cani https://blog.aimargini.com/?p=5339 https://blog.aimargini.com/?p=5339#comments Tue, 24 Jul 2012 08:51:38 +0000 funker https://blog.aimargini.com/?p=5339

Per chi ad agosto preferisce il bosco alla riviera, Ai Margini consiglia Chernarus: decadente e inospitale entroterra slavo, un luogo dove tutto è relativo e nulla è destinato a durare. Le cartoline di un pugno di emarginati alle prese con stranieri, zombie, glitch e paranoia.

Capitolo Nono
Le storie parallele della rivalsa di un pessimo autista di pulmini ai comandi del veicolo più complesso dell’intero gioco, e dell’agguato più improbabile mai tentato su Lingor Island.

Capitolo Ottavo
Ovvero come non essere sicuri di niente: né degli esplosivi, né degli hacker, né della stabilità dell’interfaccia di gioco, né dei giocatori che ti approcciano in elicottero.

Capitolo Settimo
Si aggiunge un nuovo elemento alla compagnia, la cui presenza non mette minimamente freno al declino inarrestabile della dignità e della credibilità dell’intero team. 

Clicca per vedere le puntate precedenti.

Capitolo Sesto
Momento particolarmente tranquillo del soggiorno a Chernarus; dove il gruppo oltre a cimentarsi in vari esperimenti con la tastiera, scopre che fidarsi degli sconosciuti è sempre un errore.

Capitolo Quinto
Continua il florido periodo dell’alta velocità e delle figure di merda negli scontri a fuoco, questa volta giocando d’attacco e senza miglioramento alcuno.

Capitolo Quarto
Dopo un infinito e tedioso processo di ricerca e manutenzione veicoli, arriva finalmente il momento di mettersi alla guida: con risultati degni del miglior Senna.

Capitolo Terzo
L’allegra spensieratezza condivisa dal gruppo per aver scovato qualche primo mezzo di locomozione, viene brutalmente annegata in un fiume di violenza e omicidi.

Capitolo Secondo
Sulle colline di Elektrozavodsk il gruppo di sopravvissuti si infoltisce ma i risultati sul campo di battaglia rimangono miseri e moralmente discutibili.

Capitolo Primo
Le fasi iniziali della villeggiatura a Chernarus, i primi imbarazzanti incontri con altri sopravvissuti: fra glitch, malintesi, fuoco amico e gente caduta in malo modo dalle scale.

]]> https://blog.aimargini.com/?feed=rss2&p=5339 LOOM https://blog.aimargini.com/?p=5324 https://blog.aimargini.com/?p=5324#comments Tue, 17 Apr 2012 12:51:47 +0000 JackNapier https://blog.aimargini.com/?p=5324 Prima della storia scritta, il sapere era custodito dalle gilde. Sotto le montagne, i Forgiatori plasmavano meraviglie incorruttibili. Nei boschi, i Pastori guidavano invisibili i loro greggi. I Vetrai creavano meraviglie di cristallo nella città trasparente. I Tessitori - i più austeri - conservavano e tramandavano l’arte più alta e pericolosa. La natura si mostrava loro come la trama di un tessuto. Nel Telaio, vite ed eventi si intrecciavano come fili. Per questo motivo vivevano in esilio su un’isola a largo nell’oceano, temuti dal mondo.

È quasi l’alba e le stelle nel cielo stanno per bruciare la loro ultima luce. Su una rupe, l’ultima foglia d’autunno si stacca dal suo ramo e cade. Bobbin Threadbare contempla la scena. Si dice sia figlio del telaio, e che sia portatore di sventure. Una ninfa convoca il giovane al consiglio degli anziani, ma intanto il suo clan scompare. Comincia qui la sua quest.
Qual è il legame tra musica, tessitura e magia? È la prima cosa da scoprire. Il nostro bastone suona: se do-re-mi-fa apre una porta, fa-mi-re-do deve richiuderla per forza. Il primo ambiente serve per impratichirsi: trasformare la paglia in oro, schiudere ostriche, tingere tessuti. Ogni azione ha una melodia. Quale sistema singolare! Dov’è l’inventario? E la griglia dei verbi? Cose inutili per un Tessitore. Tutto ciò che serve è intorno a Bobbin. Abolita la pesca a strascico di oggetti che non si sa bene a cosa servono, ma si sa che prima o poi serviranno. Gli oggetti vibrano e noi possiamo ascoltare e intervenire su di essi. La crescita del protagonista coincide con la scoperta di melodie più complicate, l’aggiunta di note sul pentagramma e la comparsa di indovinelli più difficili. Di quadro in quadro si srotola la narrazione. Un viaggio, una ricerca della verità, la lotta, quella dei logici tessitori/maghi/musici, contro il caos. Il tutto immerso in un contesto “sincretico”, trapuntato di mitologia greca, religione e fiabe antiche, rappresentato con l’edulcorazione di un film Disney vecchia maniera.
È tutto oro quello che luccica? Dipende. Il gioco in sé fu un fallimento, per i puristi. Ma quando mai i puristi azzeccano qualcosa? Per limiti tecnologici e tecnici, in Lucas hanno tessuto una coperta troppo corta. Il gioco è un flash; enigmi: pochi (e facili), oggetti interattivi: pochi, location: poche. Lo si attraversa dall’inizio alla fine in poche ore. Ma di Loom tieni la “potenza”, mica il risultato. La scenografia romantica, popolata da ninfe, draghi e animali notturni, circonda il giocatore con un immaginario fantasy primevo, che include la magia come arte perduta. Magia tradotta in musica. Attorno a questa idea si sviluppa il gameplay. È un ciclo: esplorazione, studio, ascolto, riproduzione. È questo ciò che amo delle avventure e che vorrei vedere ancora nelle nuove generazioni di giochi: la sorpresa e il mistero, lo spaesamento, lo studio e l’esplorazione, l’apprendimento delle regole che governano il mondo di gioco. Ma, soprattutto, l’emozione del vivere il viaggio dell’eroe. In Loom, forse più che in tutti gli altri adventure, si ritrovano questi elementi. Non è un caso che sia stato annoverato tra le fonti di ispirazione di Sword & Sworcery.

Brian Moriarty era autore di avventure testuali di successo. Nella scuderia LucasArts non ebbe paura di affidarsi a un altro paradigma, si buttò nella nuova avventura senza scendere a patti con le convenzioni del genere. La sua creatura sarebbe stata delicata e bellissima come la melodia di un carillon. Le ispirazioni arrivarono da “Il Lago dei Cigni” di Tchaikovsky e da visioni ripetute de “La bella addormentata nel bosco”. Alcuni brani dell’opera sono stati riorchestrati da George Alistair Sanger e Gary Hammond. I disegni del cartone Disney furono sottoposti allo studio di Mark Ferrari, disegnatore. Nelle intenzioni, Loom sarebbe dovuto essere il primo atto di una serie. “Non furono le scarse vendite a scoraggiare la realizzazione di seguiti…”, ha dichiarato Moriarty, “ma la volontà di dedicarsi ad altro”, e forse la consapevolezza di aver già detto tutto quello che c’era da dire in Loom.

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La recensione asciutta e lucida di: Journey. https://blog.aimargini.com/?p=5319 https://blog.aimargini.com/?p=5319#comments Sun, 25 Mar 2012 22:06:14 +0000 aries https://blog.aimargini.com/?p=5319

È bellissimo. Nulla o quasi fuori posto, animato da lacrime, ponderato e decorato, fin troppo vario nei toni, si lascia giocare che è un piacere –con persino il lusso di interazioni a loro modo originali con altri giocatori– per quella durata e quel prezzo che consentono e giustificano una cura distillata come non se ne può vedere in altri formati.

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Perché Mass Effect 3 è un gran merdone. Recensione contenutistica e spoiler-free. https://blog.aimargini.com/?p=5297 https://blog.aimargini.com/?p=5297#comments Sun, 18 Mar 2012 20:38:45 +0000 aries https://blog.aimargini.com/?p=5297 Se ne stanno leggendo di ogni: riviste storiche che gli danno il top score, acquirenti incazzati per i DLC al giorno di lancio, fan storici ancora più incazzati per il finale, 10 di media per la critica e 4 per gli utenti… ma quindi, in modo schietto, com’è questo Mass Effect 3? Chiaramente un parere lucido sulla saga galattica non può che arrivare dai margini della galassia.

Diciamo che il finale, che pure mostra parecchio il fianco, è forse l’ultimo dei problemi di questo episodio conclusivo di una trilogia decisamente mixed bag, per dirla con Skyrise. Il problema principale risiede nella volontà di fare di Mass Effect 3 l’episodio conclusivo ed epico della trilogia, col tiro di un disaster movie, di un blockbuster hollywoodiano, e quindi tutte le scelte fatte in fase di progettazione vanno in questo senso. In particolare è portato all’eccesso il tono militare-cameratesco e la morale spiccia da campo di battaglia (un mix fra pragmatismo, senso dell’onore e tolleranza, con questioni potenzialmente complesse e dalle imprevedibili implicazioni a lungo termine sempre risolte dall’eroe protagonista con un clic sulla frasetta blu), in un’orgia di epicità onanistica in chiave yankee-futuristica che quando non annoia infastidisce –un momento l’eroe è turbato per la perdita di innocenti, trenta secondi dopo la telecamera lo riprende in slow-mo mentre scavalca eroicamente un muretto sprizzando ormoni e coolness, non fa molto per rendersi credibile nel trattare il tema della morte, in scala macro o micro. Non aiuta il doppiaggio originale, con quel tono di voce, quell’accento e quel modo di pronunciare le frasi che porta all’odio viscerale per il buzzurro protagonista nel giro di qualche cutscene, specie quando attorniato da elementi di spessore come la new entry James (“siamo forti nel mercato del sud ma dovremmo rafforzare la presenza fra le comunità di giovani latini palestrati, mettiamoci la massa di muscoli tutto feromoni e tatuaggi tribali che fa immedesimare il popolo loco!”), insomma Shepard è la leggenda e tutto deve concorrere senza pudore alcuno alla trasmissione di questo trionfo d’eroismo: la regia è sempre pronta ad enfatizzare ogni situazione (che sia di gaudio o di disperazione c’è sempre un cliché adatto), l’impianto scenografico è prodigo nel mostrare scenari distrutti e in fiamme (fa così tragedia, così epico!), la scrittura è subordinata a questa missione, e di conseguenza anche le musiche spingono ancora di più sulle orchestrazioni stile Requiem for a dream, buttandoci su un po’ di synth a caso per fare identità, e nessuno dei temi musicali fa alcunché per rendersi memorabile. Come tiro generale si è passati dai paesaggi lunari fuori dal tempo alla squadra Bravo in avanzata su Londra, seguendo una traiettoria di massificazione che passa proprio dove nessuno l’ha cercata, tutti così attenti a controllare che le statistiche da RPG non venissero compromesse dall’impronta action.

Di fatto Mass Effect 3 campa sui meriti costruiti dai precedenti episodi: nel primo si era costruito il mondo, si eran descritte le razze, la scifi un po’ seventies, rinnegata poi nel secondo, che però introdusse un maggior spessore nella scrittura e nella psicologia dei personaggi dell’equipaggio: tutto ciò viene qui praticamente abbandonato poiché la missione salvezza ha precedenza su tutto, non c’è tempo per l’esplorazione, non c’è personaggio utile se non quello che può garantire ulteriori mezzi alla flotta –e tutte le subquest vanno in questa direzione, utili solo a riempire una barra corrispondente all’estensione dell’armada. I personaggi vengono dimenticati, nemmeno falcidiati ma proprio messi in secondo piano, qualcuno continuamente sottratto o nascosto al giocatore senza motivo, fino a una parte finale in cui la loro presenza viene notata a fatica. Fanno eccezione solo i rapporti fra alcune razze, qui però risolti in modo sbrigativo e con morale e metodi di cui sopra.

Tutto è architettato in modo da coinvolgere nella narrazione della resistenza (col solito cliché yankee del nemico inquantificabile e indistruttibile, v. le seppie di Matrix tanto per dirne una, epic epic epic!), per poi tradire questo coinvolgimento già labile incitando a ogni passo un rallentamento, un controllo fuori dalla direzione consigliata, un’esplorazione insensata di pianeti lontanissimi dall’obiettivo, ti viene gridato costantemente che c’è fretta e urgenza ma il giocatore che ignora il richiamo dei civili che muoiono (in realtà no, tutto scatta ai soliti checkpoint) e si mette a esplorare l’ultimo stronzo fra gli anfratti delle rovine viene ovviamente premiato con armature e power up, come in un tacito accordo fra sviluppatori e giocatori, concordi nel ritenere incredibile la minaccia aliena e ridicola un’associazione “terroristica” con mezzi per essere ovunque, prima di tutti, in modo perfettamente invisibile e con mezzi e risorse superiori a quelle della galassia sommate. Sono minacce che al massimo possono strappare un sorriso, per come vengono sparate a ondate di nemici sempre crescenti nel tentativo di trascinare più a lungo possibile il conto di ore giocate.

Insomma, al finale non è che ci si arrivi con grandi aspettative, e anzi –con tutti i buchi che presenta– rimane forse la sola cosa memorabile del gioco, e le polemiche che l’accompagnano fanno solo un favore a Bioware. La grossa occasione mancata è quella delle promesse di tenere conto delle scelte effettuate dal giocatore per cucire su di lui l’esperienza di gioco più personale possibile, di fatto non mantenuta: non solo durante il gioco le possibilità di risposta nei dialoghi sono diminuite (e nessuno pare se ne sia accorto), ma ogni scelta fatta nella trilogia che avrebbe comportato conseguenze ed eventi a cascata realmente differenti è stata abilmente evitata, facendo sparire temporaneamente i personaggi, rendendone insignificanti gli effetti o andando a far confluire ogni valore nella variabile pigliatutto del “quanto è grossa la flotta”.

Come accade sempre più spesso, la conclusione è la parte meno interessante dell’opera, poiché ha il compito di chiudere questioni tutto sommato poco interessanti, a differenza delle prime parti dove vengono svelati mondo e personaggi. Per questo Mass Effect 3 è l’episodio meno riuscito della saga: lo si gioca perché è un legame che dura da anni, perché la scifi anche becera conserva sempre un suo tiro (fosse anche solo in qualche microesperienza laterale), perché la meccanica additiva fra fasi giocate e rapporti con i personaggi funziona sempre, ma di base è un titolo che può piacere fino in fondo solo a chi gode ancora con questo genere di epica onanistica.

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Morto un pavel se ne fa un altro: il 2011 tra margini e fondazione https://blog.aimargini.com/?p=5279 https://blog.aimargini.com/?p=5279#comments Fri, 17 Feb 2012 11:20:37 +0000 pavel https://blog.aimargini.com/?p=5279 Once upon a time…
Annus mirabilis del twist e dell’assenza assoluta di lucidità. Iniziato da pavel, col pad appeso al chiodo del Pozzanghera e nella ridicola difesa di un mondo di giochini Apple-style a cui non credo, di cui chiedo venia non senza spasmi di vergogna, soprattutto per chi nel foro si è dovuto sorbire i miei appannati vaneggiamenti. Nessuna scusa: ho passato un brutto periodo pure io. Insomma si diceva, iniziato mestamente da pavel e finito in gloria – da seccapavelle –, araba fenice risorta dalle ceneri dell’anti-gameplay frustrato, versione 2.0 un po’ remake e un po’ reboot. Limited, lite e slim insieme: restyle gimmicko indispensabile in vista della ormai prossima New Generation Console.

Abbracciata, in toto, la New Wave Nintendara tra funghi e ciuffi d’erba, carica batterie ridicole e barili di pile stilo:

  • Zelda la pietra dello scandalo;
  • Il 3DS in tasca (true fanboy trifora edition) il segno potente della discontinuità;
  • L’anti-Colibrì-ismo l’unica riconoscibile scoria del passato russo.

Niente best of, solo un tentativo di lista di quei giochini che ricordo d’aver giocato. Tra gli altri anche quanto del 2010 giocato recentemente. Due righe di commento che vorrebbero imitare il Benfy-style non riuscendoci e il votino da pagella del Giggio tipo boccone del re, ammazzacaffè, soddisfatta sigaretta post-abbuffata (a proposito, l’agorà è il nuovo tempio web del tabagismo da gran signori – tutto giocato sull’asse Drake-Grifo – ultima frontiera toccata dai pelè del foro. Solo un avviso: occhio ai polmoni del Kennedy, tempo un mese e entra in casa tutto lo scibile fumabile). E quando parlo di votino da pagella intendo proprio quello, niente voti fake da catalogo Ikea, la porcata 8 e il capolavoro 9,8. No, voti The Real, da far incazzare, da sbeffeggiare in eterno.

Nota 1. Solo tre generi: platform, puzzle e adventure, che poi sono gli unici che sento onestamente nelle mie corde e su cui mi posso permettere di dire qualcosa. Ancora più sincero: gli unici che cerco. In fondo un brevissimo strappo alla regola.

Nota 2. Si ringrazia The Real Secca per la concessione del nome e Shino Pirateschi per l’ispirazione. Si ringrazia l’amata Fondazione (©) per aver fornito sede, giochini, bevande e l’indispensabile compagnia alla fabiet. Si ringrazia il Tabris perché sì (la Pozzetto come lui nessuno mai).

Platform

Ms. Splosion Man
Loro sono folli, divertenti, svegli e citazionisti: dei fissati del cattivo gusto (per capirci una fusion fra il Kakugo e il Frèg). Il gameplay è in nuce strepitoso ma non si perdona il data disk frustrante del primo episodio, un delitto in pieno giorno. (5)

Kirby’s Epic Yarn
Pucciosa l’idea, inconsistente la realizzazione. C’è il miglior tributo a Yoshi’s Island di sempre ma un platform senza sfida non ha senso alcuno se non sei under 6. Fa malissimo la citazione allo splendido episodio only-pennino, a oggi l’unico capitolo realmente intrigante della mediocre saga scaturita dalla mediocre mente del mega presidente. (5)

Super Mario 3D Land
Tassello notevolissimo nella stupefacente evoluzione strutturale dei platform Nintendo. Su questo l’Ender ha un dovuto copright: è l’anello mancante fra i Mario bidimensionali e il 64. Amen. Fa dimenticare gli inutili New Super Mario. (8)

Donkey Kong Country Returns (dal 2010)
Ok, l’Lpf e il Super Anto sono in piena Civil War. Ok, col Wii i Pirateschi c’han sfangato le palle. Bene, detto questo rimane uno dei tasselli fondamentali del rinascimento del platform contemporaneo. A differenza di altri qui non c’è nuovo ma passato “esaustivato”. È una rilettura filologica del primo Country, dalle musiche (le fabbriche, le fabbriche!) ai barili. Però superiore in tutto. Nota: le super guide inaugurate col New Mario Wii sono pretesti per permettere platform molto più esigenti della media. Chapeau. (8)

Puzzle

Night Sky
Il Nifflas è bravo, amato e sostenuto. Ha idee buone e confeziona con firma d’autore, in questo ricorda quel mattacchione stacanovista del Fumito. A schermo è la solita bellezza ma a differenza dei Knytt qui l’idea sarebbe farci giocare e troppo scricchiola: il gameplay andava rifinito. La tastiera è la solita pena, la colonna sonora è da ripetute seghe. (6)

Pullblox
Lungo è lungo, le ore le mangia e venduto a due lire sul deserto shop del portatilino ha un suo tremendissimo perché. In un mondo inflazionato dai puzzle dice la sua. (7)

Limbo (dal 2010)
Siamo in linea coi vecchi “puzzle-platform trial & error 2d su pc” dei ’90. L’effetto è revival dei tempi andati: le morti sono Heart of Darkness tre lustri dopo. Quel filtro impastato è oggettivamente clamoroso. Attenzione però: il genere è da sempre alla canna del gas e questo se la gioca in solitaria. (7)

Portal 2
Ma che gli vuoi dire? Il gioco prende il prequel che era una cosa che s’era mai giocata e ci costruisce ore tra le più intriganti di sempre. C’è tutto quello che si può chiedere a un qualcosa che voglia mischiare piattaforme, puzzle e ambizioni da racconto. Aries, sinceramente, da un pugno di amministratori di shop online non si poteva chiedere di più. (8)

Avventure

Assassin’s Creed: Brotherhood (dal 2010)
Insulso data disk del gioco del millennio by Dario Bellic. Non so se sia peggio l’assenza di qualunque sfida, il marchio indelebile dell’Ubisoft gameplay, la scelta idiota di inserire il level design solo negli stage bonus, o il loop delle stesse insulse meccaniche degne del peggior jrpg del Perfo (bot). Rimpiango le tanto vituperate Bandaiata (J. ROSS, La mia vita, Dondake Genzo Publishing, Bangkok 2011). (4)

Fable 3 (dal 2010)
Un disastro telefonato. Il gestionale è imbarazzante e quando il gioco si fa stimolante non ci si accorge, si è alla fine. Serie da chiudere. (5)

Uncharted 3: Drake’s Deception
A parte che è un racing-shooter e non dovrebbe essere qui, ma continuano a spacciarmi il gioco del Mauz per altro quando non lo è. Tutto già detto: binario, film mediocre, autoconclusivo, inerzia. È il trionfo della grafica sulla sostanza, Vangelo degli adolescenti più o meno grandicelli di cui, va detto, il fan dei giochini è il prototipo per eccellenza. (5)

Outland
Bravi, il giochino tocca le mie corde più oneste. A vedersi una gioia, da giocarsi un discreto piacere. Prende un po’ del Castlevania, un po’ del Prince of Persia e shakera piattaforme e arma bianca. Stracolmo di esplorazione e backtracking anche se troppo di mestiere. Non ci si crede, pubblica Ubisoft. (6)

Bastion
La firma del Peppe è una storia onesta raccontata con gran garbo. Accattivante il colpo d’occhio perde la scommessa con la lunga distanza, azzoppato da un level design mediocre. Non mi stupisce sia il più celebrato dei vari dd su console, è sonaro nell’anima. (6)

The Legend of Zelda: Ocarina of Time 3D
Mai sentito nominare prima del mese scorso, è una delle perle sconosciute riportate alla luce da un Mark98 in versione esploratore. I remake non sono mai stati roba mia ma nel 25th non si poteva lasciare sugli scaffali la trifora edition. La grafica impiastricciata del Nintendone è ripulita, lucidata, versione Giustiziere maxed-out. Da fermi i poligoni sono bamboline in 3D. Ma in movimento dice bene lo Sky, il giochino mangia le diottrie e alla lunga fa letteralmente sanguinare gli occhi. P.S. Il water temple si finisce da solo. (7)

The Legend of Zelda: Skyward Sword
C’è poco da dire: m’ha riacceso tutto e ha confermato il ciclico “effetto Zelda” su cui l’agorà non poteva non frantumarsi. Il telecomando è da urlo e il dungeon in itinere una passione continua. Ha commosso l’Alex, ha ridefinito le priorità dello Stobb, ha dimostrato la dislessia della Rinny, ha chiuso la carriera del Jazz. Si è tutti in attesa del parere definitivo del Gheizen, dato per disperso al terzo dungeon. È la nemesi dichiarata della frangia anti-gioia “aka” Alfiotan, Apple Tantric Mania, Abed-Sharden e Starpelè. (9)

Meanwhile…

Minecraft, Dark Souls, Skyrim
Solo sfiorati ma poco amati “aka” rpg qual vetusta passione “aka” Grifo e Munba vorrei essere come voi “aka” purtroppo non c’è più il tempo per bug, craft, farm & crap. (s.v. e alla prossima vita)

Torchlight
Dopo le decine di ore di un lungo nerd-weekend primaverile non posso non appioppargli una scintillante sufficienza. (6)

Xenoblade Chronicles
Questi la fanno grossa: metabolizzano la lezione di FFXII e la portano a pieno compimento. Leggerissimo da giocare, bellissimo da esplorare, con il marchio Nintendo sui caricamenti che ha del clamoroso: inesistenti. Peccato per storia e personaggi da minorati, il solito pasticcio anime-like ormai insopportabile. Il prossimo passo da fare sarà proprio lì. (7)

seccapadelle

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Minima tecnologica. https://blog.aimargini.com/?p=5271 https://blog.aimargini.com/?p=5271#comments Tue, 14 Feb 2012 09:11:58 +0000 aries https://blog.aimargini.com/?p=5271 Così Nintendo se ne esce col Sapientino; Microsoft, a quanto pare già stanca di quella miniera di gameplay sopraffino di nome Kinect, sembra voler seguire la stessa strada, in un impeto di dignità aziendale; Sony non s’è capito nemmeno se ci sarà, se deciderà di dar seguito al successone del Move, ma intanto butta fuori l’ennesimo inutile portatile decidendo che senza una linea guida precisa avrebbe seguito ogni linea guida possibile, mettendo ogni tipo di controllo a disposizione degli sviluppatori, un Eldorado di nuove occasioni e di avventure.

Lasciatemi dire una cosa però, e sarò brevissimo: potete usare qualsiasi periferica, e introdurre qualsiasi novità tecnologica: è tutta fuffa, e almeno qui lo si sa.


Perché potete stravolgere tutto ogni 2 anni, potete integrare qualsiasi tecnologia –2 su 3 son dei trabiccoli, fra l’altro–, ma la sola cosa che conta sono i contenuti e voi siete dei cagnacci che non sanno più produrne di qualità (e in alcuni casi, ciao Sony e Naughty Dog, non ne siete mai stati in grado).
Sì, lo si dice in due, pure chi un tempo sembrava capirci qualcosa ora regala 9.x a ogni sonarata (ciao Edge), ma qualcuno dovrà pur farlo. Il gingillo tecnologico non fa contenuto a sé, va supportato se lo si vuol dotare di un senso, e sta a chi lo vende riuscire non solo a imporlo come standard ma a spiegare a chi crea contenuti come va utilizzato, e farci uscire una pletora di contenuti di qualità per farne una base convincente e indicare la via a tutti gli altri.

E no, contenuto di qualità non vuol dire conversione di Uncharted, non vuol dire Twisted Metal, non vuol dire Kinect Sports, non vuol dire il clone touch Gameloft, il minigioco sociale o i porting pezzenti di giochi di 20 anni fa col joystick virtuale su una tavoletta insugnata, non vuol dire la tech-demo grafica “è possibile anche su X!” o il nuovo modello di business free to play con cui umiliare il concetto di giocatore. Lo spessore, la visione d’insieme, la cura costante, lo studio della lineup, la magia di un lancio che lasci presagire un futuro florido, l’illusione di una filosofia alle spalle, d’una impronta – ma dove cazzo è il third place che m’avevate promesso?

Quella tecnologica è la via veloce e facile. Ogni novità si vende da sé e crea benefici immediati e certi. Quella creativa è lenta, lunga e tortuosa, richiede molto più impegno, più denaro, più capacità e difficilmente ripaga –che sulla miglior risoluzione di uno schermo siam tutti d’accordo, è sul contenuto che ci si divide–, ma voglio illudermi che sia l’unica a garantire affezione a lungo termine.
L’ultima convinzione d’un povero Cristo.

Foto gay friendly in home di Erica Gibson.

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[Speciale 2011] Se sai vieni a insegnare. Se non sai vieni a imparare. https://blog.aimargini.com/?p=5254 https://blog.aimargini.com/?p=5254#comments Thu, 29 Dec 2011 14:10:49 +0000 LPf https://blog.aimargini.com/?p=5254 ?2011, l’anno della totale, completa, assoluta maturazione, l’anno della maturità contemplativa e spirituale con qualche nota vagamente mistica. Io non racconto più i videogiochi, io non parlo più di videogiochi, io sono i videogiochi e parlo di me.

Il mio percorso intellettivo, che significa tanto raziocinativo e cerebrale quanto emotivo e spirituale, è giunto al suo sviluppo definitivo, al suo completamento ultimo, non c’è un oltre, non c’è un passo successivo, e le riprove sono marcatamente empiriche. Non ci sono infantilismi o bizze, né contrasti o rivalse, non c’è un perimetro e non ci sono ostacoli, solo profondissima quiete e rinnovato amore, un perpetuo e imperturbabile sentore di affetto, simpatia e adesione intensa nei confronti del mondo e della storia del videogioco giocato. C’è consapevolezza, tanta, coscienza e conoscenza.

È quasi strano parlarne, un tempo scrivere di videogiochi mi dava piacere, era una parte di me che in qualche modo si affermava, una sorta d’infantilismo psichico che gonfiava per cinque minuti il petto e il suo ego, poggiando su un’acerbissima preparazione ed un sapere incredibilmente lacunoso – a prescindere da quei 6/7 lustri passati davanti a un display. Oggi è l’opposto, provo un senso di vuoto in cui si mescolano fatica e malinconia, non m’interessa che la gente legga o condivida, anzi, mi dà quasi fastidio che gli dia un qualche valore o lo trovi vagamente interessante. Io non parlo di come stanno secondo me le cose, ma delle cose.

Niente patetiche liste per baby busters, nessun ridicolo vincitore o pietoso runner-up, basta con gli agghiaccianti awards da avvilente rivista per minorati. Si parla solo di un anno di giocato e di chi sia stato capace di dare emozioni sincere e schietto divertimento, pace e amore.

È stato un anno in cui il mio adorato concetto di Xbox è arrivato al completamento del suo processo evolutivo, uno straordinario decennio di arrampicata perpetua sul clivio più alto dell’intrattenimento. Certo, parte della sua originaria, dirompente (a tratti ingenua), carica eversiva è andata perduta, o meglio, si è trasformata; diciamo che sostanzialmente abbia dato vita ad  un quadro più grosso anziché ad un quadro diverso. Ad oggi è senza dubbio la più completa entertainment station collocabile in un salotto che il mercato ci abbia mai offerto, non solo c’è qualsivoglia applicazione online o software di ogni dove e come, ma ha anche mantenuto il suo peculiarissimo tiro e se 10 anni fa The Elder Scrolls e Halo furono i primi DVD che inserii nel carrello, oggi Halo e The Elder Scrolls sono gli ultimi due che abbia tolto. Immobilismo? Neanche per idea, il contrario, evoluzione storica, stravolgimento storico. 10 anni fa non erano nessuno, oggi sono mostri trinciamilioni, protagonisti assoluti della scena e 10 anni fa ero uno dei pochi, se non il solo, a non aver dubbio alcuno che lo sarebbero diventati. Certo, emotivamente qualcosa non funziona più come allora davanti a quegli schermi, inutile nascondersi dietro a un dito. Senza dubbio quest’anno, parlo di giocato, non ho testato niente di più divertente dell’ultimo Gears of War che chiude il cerchio, da lì eravamo partiti a inizio generazione fra nottate di risate e insulti, e alle medesime siamo tornati alla sua fine - ma quanto è durato? Un mese? Due? Quanto mi smuove Skyrim rispetto a Morrowind? Quanto ha frullato l’ultimo Halo che celebrava i 10 anni della saga di riferimento del concetto stesso di Xbox? Attenzione, parlare di Xbox non significa parlare di me, si ragiona in primis di noi, non è un problema mio di sovraesposizione a certi brand o concept, qua si parla di noi, delle nostre serate su Halo, delle vostre su Call of Duty, delle loro su Battlefield. E noi, tutti, sappiamo perfettamente in cuor nostro che qualcosa, e non qualcuno, si sia perso per strada. Sorvolo su Kinect, la nuova dashboard, la multimedialità e tutto quello che Xbox è in grado di offrire, ma oggi, all’apice supremo della sua ascesa, anche in termini schiettamente numerici, Xbox è un’esperienza a tratti stanca, slavata e cerea, a tratti incerta, indecisa e inespressiva, a tratti esangue… E il brutto è che non ci possiamo fare un cazzo di nulla…

Purtroppo ho poco da dire su Sony, l’odio di un tempo è diventato disinteresse prima, da qualche anno è qualcosa simile alla cedevolezza, alla flessibilità, all’indulgenza con punte inaspettate di premura, delicatezza, affettuosità. Un po’ forse coinvolto a livello lavorativo, e nei momenti nerissimi di Sony non ci son stato per nulla bene, un po’ perché a mente aperta e serena riesco a riconoscere un fascino unico al concetto di PlayStation che fu, anche se con fatica provo ad associarlo a quello di PlayStation che è, ma istintivamente mi rifugio nello charme irresistibile che solo un gigante caduto può esercitare, e allora godo profondamente nel vedere cosa non combina tecnicamente Uncharted, mi dà una sorta di senso di rivalsa, in qualche modo di giustizia, quasi a dire “il più forte sono sempre io” senza avere la forza di gridarlo.  E lo slancio finisce lì, esattamente dove inizia, non riesco a vedere un’offerta Sony se non come ad un’offerta Microsoft mutilata, identica ma più impedita, uguale ma più manchevole, fra titoli multiformato portatori di handicap, che già sono diversamente abili su Xbox e titoli interni che non parlano né della PlayStation che fu, né della PlayStation che è…  E il brutto è che non ci posso fare un cazzo di nulla…

E per capire cosa manca, cosa posso fare, per capire l’ovvio ci vuole una cosa sola: l’ovvio. L’ovvio è rivolgersi al migliore del mondo, da sempre - ai migliori di sempre - per tacere anche della mia sciagurata Sega. Da che esistono i videogiochi i migliori sono loro, o meglio, è da quando loro hanno inventato i videogiochi - perché li hanno inventati loro quando Microsoft vendeva sistemi operativi bacati e Sony radioline con le cuffiette di spugna – che mettono al mondo roba concettualmente impensabile per gli altri; ieri come oggi. Se ne sbattono dell’hardware, l’hanno sempre fatto, non è un vezzo o un plus, né una cosa aberrante, è solo un dato di fatto. Ma fanno quello che gli altri non possono fare (leggi: permettersi di fare) abbiano per le mani un NES marcio, un GameBoy con 4 gradi di grigio, una ciabatta bucata come il Wii. Il divertimento non si misura in bit diceva qualcuno, ed è un concetto sciatto, scricco, puerile. Perché Nintendo investe su un gioco quanto gli altri investono su cinque ed è solo allora che l’hardware, il mezzo, diventa meramente accessorio, collaterale. Poi questo è solo un aspetto, l’altro è che si parla di studio, concept, e soprattutto personale, in eccesso per quantità e competenza, si parla del più completo, vasto, e soprattutto capace, team esistente che è anche l’unico con un know how talmente consolidato che il gap con gli altri diventa quasi avvilente. Basta un passaggio di un gioco, lo capisci subito, lo sai perfettamente: gli altri non faranno mai una cosa del genere. Faranno cose ugualmente belle, svilupperanno idee in altre direzioni, ma quella cosa non la faranno mai. Perché un conto è fare un videogioco, un conto è fare un videogioco quando ti chiami Nintendo. E un conto è giocare ad un videogioco, un conto è giocare ad un videogioco di Nintendo. Sembra impossibile, ma hai appena finito l’ultimo Zelda, sei a casa tutto il giorno e non ti riesce giocare a niente senza romperti le palle dopo mezz’ora… E il brutto è che non gli puoi fare un cazzo di nulla…

Gioco dell’anno: The Legend of Zelda Skyward Sword

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