Di poche cose una è chiara: non siamo sul pezzo. Non ci interessa, o non ne siamo in grado, oppure ce la tiriamo, poco cambia. Va benissimo così.
Resta il fatto che ci si ritrova -come me, in questo momento- nella difficile posizione di chi dice “ma che cazzo la scrivo a fare una recensione di Resident Evil 5 (da ora in poi Biohazard[1]) che se lo son già giocato tutti?“.
Il secondo passo a questo punto, dopo avere adeguatamente svuotato due sessantasei di birraccia cinese ed essersi letto questa recensione del romanzo di Baglioni, è: “sticazzi, peggio non posso fare, e poi chi se ne frega, mica siamo Igienne, abbiamo delle cose da dire qui, non ci limitiamo a descrivervi quello che potete vedere anche da voi“.
Errore mio. Ma siamo qui e andiamo avanti.
Butto la bomba subito: quella di Biohazard è una serie sopravvalutata, ma -ancora più di altre- vanta una schiera di fan con la bava alla bocca, pronti a lamentarsi sia per lo stanco trascinarsi sugli stessi binari e clichè di ogni episodio, quanto per qualsiasi forma di cambiamento -anche minima- proposta dai designer. Probabilmente in Capcom essere messo a lavorare su Biohazard corrisponde più o meno a quando gli Yakuza si tagliano il mignolo dopo un’enorme cazzata. E in effetti alla prossima occasione devo fare caso alle mani di Takeuchi.
Ora, ai suddetti sbavanti, era già stato tirato un coadiuvante calcio nei denti con lo scorso episodio, ma Mikami è pur sempre Mikami: quello che con Biohazard può dire “il pallone è mio, se voglio me lo porto via“. Ben altra storia, invece è se sei Jun Takeuchi.
Quello che stupisce, ad un’analisi più attenta delle meccaniche, di Biohazard 5 è il fatto che -a dispetto di quanto possa sembrare- in realtà non è cambiato (quasi) niente.
Mi spiego meglio: a differenza della maggior parte degli altri videogiochi (o serie di), Biohazard è cristallizzato attorno a quello che è il suo nucleo principale: il sistema di controllo[2]. La più comune delle critiche rivolte a questo ultimo episodio (ma anche a quello precedente, e dalle stesse persone -che l’hanno prontamente dimenticato, cosa che ci riporta al paragrafo poco sopra) consiste nell’affermazione “il sistema di controllo è vecchio/è invecchiato male“, con la variante (appena formale) di “non è ammissibile nel 2009“. Ora, ci sono particolari che -sicuramente- potevano essere migliorabili (ad esempio avere un tasto adibito sia alla raccolta degli oggetti che all’interazione con gli elementi dello scenario, in più casi ha provocato dei dispiaceri al buon signore dei piani alti), ma non riguardano il suo nucleo centrale.
Il punto catartico, l’illuminazione, a cui si deve arrivare per apprezzare -di più, adorare anche- Biohazard 5 è che muovere un tizio (e/o tizia) con un palo nel culo è non solo bello, ma anche gratificante. Capisco anche chi davanti a quest’affermazione possa storcere il naso, ovviamente, ma prendiamola più alla lontana.
Quest’ultima installazione di Biohazard si libera definitivamente da tutti i fronzoli e orpelli dei precedenti, rinunciando pure al (pen)ultimo -malriuscito- stralcio di contestualizzazione del quarto episodio: il famigerato mercante uodariubain/uodariusellin, sostituito da un’amena schermata a la Counterstrike dove in modo non meglio specificato (ebay?) Chris e Sheva (coprotagonista finto-africana di questo quinto capitolo: ogni tanto ci infilo qualche informazione tipo recensione seria, via) comprano e potenziano le loro armi. Dicevo: si libera da tutti i fronzoli, per proporci una serie di stage consecutivi dove l’anima reale del gioco finalmente emerge in tutta la sua chiarezza: sono io (e stavolta io e un altro/a) prima contro il sistema di controllo, poi contro i nemici, il tempo, la valutazione finale che mi verrà data.
E’ la magia (o follia) del videogioco nella sua forma più pura, seconda solo a Mario che salta sui funghi: dove comprano le armi i nostri eroi? perché i nemici muoiono rilasciandomi delle munizioni per armi che non usano? perché dentro i vasi/casse/cazzi ci sono oro/munizioni/erbe/serpenti? Per quale motivo un’organizzazione di polizia internazionale dovrebbe nascondere 30 emblemi sul percorso di due suoi agenti che -non bastasse- si presume neanche potrebbero conoscere (il percorso, non gli agenti)? La risposta di Biohazard 5, e di Takeuchi (e mia, certo) a tutto questo è “chissenefrega!” o -un pelo più tecnicamente- “sospensione dell’incredulità“. Bello, no?
E in effetti, se non ti fermi a ragionarci sopra, neanche ci pensi. Di più: in tutto questo risulta addirittura fastidioso che ci sia una trama (l’ultimo labile appiglio alla contestualizzazione) a fare da collante, tanto che -lo ammetto con gioia- io non ho neanche provato a seguirla.
Anche e soprattutto perché, a dispetto di tutto quanto sopra, il gioco funziona bene, terribilmente bene. E con lo spirito dell’arcadone d’altri tempi si fa godere a molteplici livelli, fila via liscio ai livelli di difficoltà base, ma ti costringe a entrare davvero nelle meccaniche nel momento in cui decidi di fare sul serio: se e quando in modalità “un colpo e muori” vuoi prendere tutto, vedere tutto, uccidere tutti. I potenziamenti delle armi e le munizioni infinite, ottenibili un po’ troppo facilmente, rovinano parzialmente il concept, ma è perdonabile. E il motivo per cui il gioco è così maledettamente gratificante risiede proprio nell’osticità e nella macchinosità del sistema di controllo che traccia una netta -e incolmabile- linea divisoria fra Biohazard 5 e qualsiasi altro action-game. A differenza della maggior parte degli altri titoli, che seguono la politica del facile da imparare, difficile da padroneggiare, Biohazard ti butta (da sempre) in un iniziale stato di frustrazione del tipo “ma cazzo se fosse stato fatto così“…
Sì, ma non è. La vita è ingiusta piccolo stronzo. E dire che -in un impeto di bontà (o di modernizzazione, non so)- quest’ultimo episodio concede addirittura la possibilità di personalizzare, entro certi limiti, il sistema-di-controllo-palo-nel-culo, permettendo in configurazione base (addirittura!) di eseguire qualcosa di molto simile allo strafe, allontanandosi dall’anacronistico character relative assoluto che sempre aveva contraddistinto la serie. Non che cambi moltissimo, perché quando vuoi sparare, caro mio, col cazzo che ti muovi, strafi o salti.
Ed è proprio questa l’intuizione su cui si regge Resident Evil 5, il momento in cui -soprattutto al livello di difficoltà più elevato- devi valutare quando fermarti a sparare, in base al nemico che hai di fronte: salterà? non salterà? mi tirerà una roncolata? sparerà? ha una bomba, mi conviene farlo esplodere o è troppo vicino? Sembra una cazzata, ma la cifra ludica, come fa tanto figo chiamarla, è tutta qui: in quell’istante in cui capisci se hai fatto una cappellata o meno, e nell’istante successivo, in cui scopri se il partner sarà abbastanza rapido a curarti, o se creperai indegnamente per l’ennesima volta a un millimetro dal checkpoint.
E siccome quasi per caso si parla di partner e di cure, ne approfitto per spendere qualche riga su una delle grosse novità di questo quinto capitolo. Ma la risolvo in fretta: l’unico modo in cui ha senso giocare Biohazard 5 è in cooperativa, giocarlo in single player svilisce terribilmente l’esperienza, per quanto il gioco provi (e parzialmente riesca) a fornire un AI alleata credibile, giocare con un compagno (ed un amico) è ovviamente tutt’altra cosa[3].
Qualcuno potrebbe trovare un errore (o quantomeno disonesto) che il gioco sia pensato per essere giocato in due, ma storicamente, dai tempi di Double Dragon (e pure prima, mi sa) gli arcadoni -fra i quali brillano di luce propria quelli marchiati Capcom- sono stati orientati alla condivisione dell’esperienza con un compagno. E chi mi dice che giocare Double Dragon, piuttosto che Final Fight da solo non fosse svilente nei confronti del titolo, mi sta raccontando una gran cazzata.
Biohazard 5, ne sono sempre più sicuro, è -ancora più dei vari Devil May Cry o Ninja Gaiden- l’erede naturale dei beat’em up a scorrimento che hanno accompagnato la nostra adolescenza negli anni ‘80 e ‘90, e -in quanto tale- giustificato nel suo essere assolutamente e indissolubilmente fuori dal tempo, né vecchio né nuovo, semplicemente Biohazard.
Quest’articolo partecipa alla diatriba “Plasma o LCD?”
Si ringrazia sentitamente Lorenzo “Consolemania rediviva” Pisaneschi per il servizio fotografico comparativo, a voi capire who’s who, anche se, vi vengo incontro, non è facile.
1. Giusto perché sono un po’ stufo di sentire dire “eh ma perché lo intitolano ancora Residenivo che non c’è più nessuna residenza (sic) e non fa più paura?“. Perché si intitola Biohazard, si è sempre intitolato così.
2. Non è del tutto vero, ma ci torno.
3. Soprattutto quando dopo un’ora di tentativi per tirare giù un boss ti dice “Ops, ma sai che forse non ho preso il tesoro, rifacciamo?”
Commenta quest’improbabile 9 nell’Agorà.
Purtoppo le foto erano venute da dio, ma ho dovuto incollarle con l’unico strumento a mia disposizione: il Paint. Ovviamente salvandole e uppandole son marcite, peccato perché c’avevo lavorato un botto… Sul gioco niente da aggiungere, la penso esattamente come il Mauz, poi loro li adoro a prescindere, figurati se non ho adorato tutto questo hazard: gioco disegnato esclusivamente per il multiplayer, botta indicibile alla trama alla faccia di Mikami. Aggiungo che quella che col Dario chiamavamo l’esplorazione giappa m’ha messo di un bene che non riesco nemmeno a capire, figuriamoci a spiegare: quella povera, piccola libertà in aree di gioco che sembrano aperte e son chiuse, sembrano minimicro e invece hanno del level design a tratti pure spinto, impensabile apprezzarle ad oggi, ma ne godi, ogni passo, ogni corridoio “Oh, ma dove sei?” ma dove vuoi che sia, che a momenti ci pestiamo i piedi in questi due metri quadrati!? Però quando c’è design lo senti e lo tocchi anche se non lo vedi. Tanto amore, tanta cura e saga in ghiaccio. Chissà come e quando la ritireranno fuori…
Eheh, il “dove sei” è sintomatico, è nextgen, anche quando si scontra inevitabilmente con questi mondi antichi quanto affascinanti. Rapportarsi e riallinearsi a questi parametri è stato proprio bello. Quando c’è cura, c’è design, c’è amore… Cosa si può dire? Si gioca.
Anche se gradirei un ritrono alle origini orrorifiche, che a quanto pare ci sarà…