Le pubblicano col ritmo di un capitolo all’anno - forse anche di più, se consideriamo gli spin-off. Eppure, le avventure del professor Layton si confermano ogni volta come giochi di ottimo livello. Sono puzzle-game, con trame avvincenti e uno stile grafico che fa l’occhiolino ad Hergé. Certo, mai belli quanto il primo episodio “Il professor Layton e il paese dei misteri”, anche per i ben noti limiti della riscrittura - su tutti la prevedibilità. Questo perché il plot segue più o meno lo stesso schema in tutti gli episodi: una lettera informa Layton di un mistero; cominciate le indagini, il caso si complica; Layton e il suo assistente Luke indagano, interrogano i sospetti, raccolgono indizi; la vicenda raggiunge il suo climax al momento del confronto finale, al quale segue la risoluzione del caso. Un giallo deduttivo nella forma più classica, che già di suo è una sfida razionale allo spettatore/giocatore.
Quello però che le storie del professor Layton fanno è spingere questa razionalità all’estremo, estendendola anche allo stile narrativo e al gameplay. Tanto per cominciare, il protagonista ci viene presentato come un incrocio tra Indiana Jones e Sherlock Holmes, col carattere edulcorato di Tin Tin. Il professore è un archeologo in una Londra sospesa tra antico e moderno, dai tratti vagamente steampunk. Tuttavia, il suo acume e la sua passione per gli indovinelli lo portano spesso ad uscire dal suo campo per aiutare la polizia con la risoluzione di casi complicati. Non è un detective - non ufficialmente - ma ne ha tutti i crismi: un metodo di indagine “scientifico”, capacità abduttive formidabili, una mente lucida e razionale. Da Sherlock Holmes ha ereditato anche i comprimari: Luke Triton, un sidekick al quale tiene come un figlio; un commissario incapace, ostile in un primo momento, poi amico fidato; e un Moriarty malefico e intelligente quanto l’originale, impersonato da Don Pablo. Ma c’è una caratteristica del personaggio più nascosta delle altre che lo rende davvero affascinante e forse unico. È una cosa che balza all’attenzione dal prologo di ogni storia, dove persino una lettera o una cartina urbanistica diventa un rebus, con un messaggio da decifrare. Ogni situazione viene esaminata e decostruita, gli elementi vengono spolpati e astratti, perché la loro struttura possa adattarsi a situazioni simili, più o meno complesse. È la visione che il prof. Layton ha delle cose. Una mente che filtra la realtà, la scompone fino al più piccolo frammento dotato di significato, all’interno del quale scorge un riflesso dell’universo che lo circonda. L’interpretazione di ogni singolo puzzle lo porta più vicino alla conoscenza del “Tutto” e, nel particolare, della soluzione del caso. Ed è attraverso questa visione della realtà che avviene la narrazione. La superiorità del primo atto della serie sta tutta nel valore metaforico degli avvenimenti del paesino di Saint-Mystère, dove la vita è stata riprodotta artificialmente da un alchimista e controllata da un tecnico che osserva gli avvenimenti da una torre è un complesso di rimandi filosofici e politici a Jeremy Bentham e il suo Panopticon, nonché alle tematiche delle opere di Philip K. Dick. Cosa che inevitabilmente riporta il giocatore ad interrogarsi sulle solite questioni “cos’è la vita?”, “cos’è reale”, “cos’è Dio?”. Ciò che accade nel borgo arriva a collimare perfettamente con ciò che accade nella mente del professore. Un sistema che funziona come un gigantesco carillon, dove ogni piccolo ingranaggio è parte fondamentale dell’intero meccanismo. La stessa narrazione procede meccanicamente, partendo dai bordi, raccogliendo indizi sui pezzi più prossimi che costituiscono la cornice dei fatti, per arrivare, incastro dopo incastro, al nocciolo del puzzle e centro del labirinto, dove ci attende il confronto con il guardiano. A questo punto, il potere del videogioco e della sua “interattività con la finzione” dovrebbe portare a un’ulteriore riflessione. Se provassimo a lacerare il velo, ci renderemmo conto di essere tutti noi dei Layton, e che non è solo il “gioco del professor Layton” ad imprigionarci con i suoi indovinelli: ogni gioco che giochiamo è un labirinto dove le vie di fuga e gli ostacoli da superare sono il progresso nella narrazione, un filo di lana scelto dagli autori tra tanti gomitoli. E dove ogni parete che ci sbarra la strada e ogni vicolo cieco è una possibilità “ludico-narrativa” che è stata scartata dal game designer, unico vero dungeon master, osservatore del Panopticon, tessitore di inganni.