Due letture di Dishonored. - { Curia, Delibere }
JackNapier, Lunedì 29 Ottobre 2012 @ 11:28

Molti ne parlano con toni entusiastici, altri ne criticano un’eccessiva brevità: aggiungiamo sproposito allo sproposito con una doppia recensione ai margini, e quindi definitiva, del gioco dell’anno (poiché unico).

Dishonored nasce come felice fusione di una serie di approcci al videogioco singolarmente già rispettati: c’è la parte Arkane molto attenta al come si percepisce la fisicità e il combattimento corpo a corpo, un’altra parte di ex del team di Deus Ex che ha a cuore la libertà concessa al giocatore in un sistema ben congegnato, e infine c’è il futurbanista (e direttore artistico, presumo) Antonov, caro ai più per la guerra dei mondi sloveni di Half Life 2.

Tutto questo ha portato a un gioco effettivamente valido e che nelle prime ore, appena superata la missione-tutorial, sembra fare tutto nel modo corretto per farsi amare persino da un cagacazzi come il sottoscritto. In primis la città dipinta, uno steampunk in stato di grazia davvero poco usuale in questo media, che tanto avrebbe da dare in termini di fantasia e che invece sempre più spesso si ritrova schiacciato negli stilemi di una fantascienza muscolare e del fantasy post-tolkeniano. A Dunwall convivono la carta da parati e l’energia ricavata dall’olio di balena, le insegne illustrate dei locali retrò e le guardie sui trampoli elettrificati, le anatomie deformi della working class inglese e le imponenti architetture fasciste, i vestiti sfarzosi della nobiltà e stormi di nervose pantegane. Dicevo “città dipinta” non a caso: l’approccio al lato estetico è stato quello di favorire la matericità delle pennellate in un rendering pastoso, vivo e colorato, operazione largamente incompresa dalla generazione Crytek ma che inevitabilmente farà scuola.

In questa città al giocatore (lasciando perdere la trama, che non merita alcun approfondimento) viene data relativa libertà d’azione: ambienti di gioco esplorabili a piacimento, una serie di poteri che aiutano e determinano quest’esplorazione e una libertà decisionale che riguarda aspetti sostanziali del giocato e di cui è possibile verificare le conseguenze nel mondo stesso. Non è una libertà totale, ovviamente impossibile, ma un ventaglio ben progettato di opzioni che unito alla piacevolezza del gameplay e alla bellezza estetica concretizza un matrimonio di valori che ha spinto qualcuno alle lacrime.

Purtroppo quest’idillio non dura fino in fondo: a un certo punto Dishonored smette di essere Crysis e diventa Crysis 2: via i quartieri, gli ambienti diventano sempre più simili a corridoi da affrontare linearmente, la sensazione di essere un’anomalia in un sistema viene meno e ad essa si sostituisce il solito rollercoaster di eventi e situazioni inevitabili, con giusto qualche bivio a mantenere un collegamento con la prima parte. A questo si unisce una IA che fa le bizze e che talvolta persino bara per mettere un freno a un protagonista che, con l’acquisire dei poteri, diventa obiettivamente indomabile, e che porta a una certa delusione, anche in concomitanza con l’esposizione di una trama prevedibile e goffa e di qualche calo di tiro.

Dishonored mostra il fianco, ed è un peccato perché avrebbe potuto rappresentare una milestone non inferiore allo stesso capolavoro Valve, ma questo non toglie che sia un titolo di valore con soluzioni brillanti e che per una buona parte rimanga una goduria a giocarsi e a vedersi.

aries

L’acquisizione di Arkane da parte di Zenimax finalmente ha un senso. Dishonored arriva col suo carico di aspettative e non ne canna nessuna. È il ruggito del pc gaming che ritorna? Non ci interessa. È l’accozzaglia di trovate più belle si possa sperare di trovare in un videogioco.

Partiamo dalla prima: Steampunk. Quanto è figo questo sotto-genere? E perché è così poco sfruttato? Dishonored ne è un’ode: un pastrocchio cronologico di Art Nouveau, mood Vittoriano, fabbriche che avvelenano l’aria, pistole a colpo singolo, sciabole e “costumi” seicenteschi (sic); mixato assieme a un po’ di Teslapunk (o Whalepunk?), che non fa mai male. C’è poi quel modo scientifico di trattare la magia, senza enfatizzarla troppo, come se fosse una scienza smarrita nel tempo. C’è chi lo chiama Low Fantasy. Il tutto sporcato da un’impronta weird. Non unirà tutti nel consenso, meglio: vuol dire che ha carattere. La città.Dunwall è protagonista di Dishonored come City 17 lo è di Half Life 2. Non per nulla l’architetto è lo stesso: Viktor Antonov, art designer, specializzato ormai in urbanistica distopica. Non c’è niente di più bello che affezionarsi a luoghi e personaggi, integrarsi in quel microcosmo e vivere la sindrome da distaccamento una volta finito tutto. Quando tutto è così ispirato e curato nei dettagli viene facile innamorarsene. E non importa se la sceneggiatura è un po’ così: in giochi come questo non conta cosa si dice, ma il come, e quanto diverte. Dishonored è un’”avventura aperta”. Vi vengono date abilità, indicazioni, obiettivi, e carta bianca sul tipo di approccio. Ogni area è una matassa di situazioni che va sbrogliata con attenzione. Ogni azione richiede pianificazione. Lanciarsi diretti contro i nemici non paga quasi mai. Starsene invece accucciati in un angolo, prendersi il tempo che occorre, osservare i percorsi delle guardie, sfruttare ogni tocco di classe del meraviglioso level design. Quindi partire con l’azione, come in un meccanismo di precisione. Meglio si riesce ad incastrare le azioni, più si viene ripagati in termini di soddisfazione. Ma l’imprevisto c’è sempre. Una guardia ferma a orinare proprio dove siete nascosti, una sirena non vista, un’asse che fa rumore al nostro passaggio. In quel momento, il protagonista diventa Pac-Man: in un labirinto di viottoli e ripari, in attesa di un momento favorevole per sopraffare le guardie/fantasmini. Non fatevi condizionare nella condotta, il gioco non spinge in nessuna direzione. C’è solo il Caos, che rimescola fatti, luoghi e protagonisti come carte dei tarocchi. Sicché Tizio lo ritroverete in posto Tal dei Tali piuttosto che dove ve lo aspettavate. Una catena di “correzioni in corsa”, che si ripercuotono sulla diegesi e sull’epilogo. Più che di “avventura aperta”, allora, si può parlare di “avventura combinatoria”, come Deus Ex Human Revolution, ma ancora più raffinata.

Se proprio bisogna trovargli difetti, questi arrivano tutti nel finale: moscio e inutilmente annacquato, gira a vuoto senza incidere mai. Dettagli.

JackNapier


1 commento a “Due letture di Dishonored.”

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