Perché di un’opera teatrale stiamo parlando, del più atipico degli Zelda, del controverso Majora’s Mask, riproposto in questi giorni sull’inutile hardware Nintendo tramite Virtual Console.
Majora non nasce come Zelda, e nemmeno come gioco classico. Infatti, laddove nel canone l’eroe parte per il suo viaggio e progressivamente si evolve fino a completare la sua missione finale, qui l’eroe prima di tutto cade. E cade perché dobbiamo capire che le regole di questo gioco non sono le solite. In Majora’s Mask non ci sono nemesi goffe che risparmiano l’eroe e lo fanno crescere fino a renderlo invincibile, non vi è un mondo fittizio, uguale giorno dopo giorno, disposto a dare all’eroe tutto il tempo necessario a diventare abbastanza forte per salvare il mondo.
Qui la vostra nemesi è letale, è la prima cosa che incontrate nel gioco e vi strappa di tutto ciò che avete e vi lascia inerme per qualche ora, un’eternità, in termini videoludici. Il tempo è tiranno, sempre scarso, mai sufficiente come nella vita, e come nella vita influenza ogni cosa, ogni azione di ogni personaggio. La luna sopra la vostra testa è sempre lì a ribadirvi questo concetto, a ricordarvi che il tempo è scarso, che voi avete perso. Non c’è una minaccia potenziale, bensì reale, il cielo sta cadendo sopra di voi, e voi non potete farci nulla.
Sì, voi avete perso, ma potete riprovare. Questo è il primo messaggio che manda Majora’s Mask. Perché qui non stiamo giocando, bensì recitando. E ogni volta potrete provare e riprovare la parte fino a quando non l’avrete assimilata, fino a quando non avrete compiuto perfettamente ogni azione nell’ordine prestabilito. Prima di poter affrontare la sfida finale dovrete imparare ad interpretare diversi ruoli alla perfezione (Deku, Goron, Zora) ed ottenere i corrispondenti attestati di capacità (le maschere dei diversi boss, che saranno la chiave per il boss finale).
Non è certo un caso se il tema del gioco sono le maschere. Il vostro nemico non è un mostro terrificante o una qualche divinità oscura, ma è un bambino esattamente come voi che però, a differenza vostra, ha preso la maschera del nemico anziché quella dell’eroe, ed è quella la parte che deve interpretare.
Ma allora, se i vari personaggi stanno interpretando una parte, è tutto falso quel che ci presenta questo gioco? Assolutamente no, e qui sta la bellezza di Majora’s Mask.
L’opera che voi state recitando è la vita reale vista attraverso gli occhi di un bambino.
E per un bambino che ha vissuto sempre nel mondo delle fiabe, il mondo reale non può che apparire grottesco, oscuro e paradossale.
Laddove le tinte dello Zelda predecessore sono tenui ed allegre, qui i colori sono scuri e terribilmente saturi. Così le musiche presentano spesso sonorità acide e graffianti impensabili in uno Zelda classico.
Ma non è solo il mondo ad apparire differente al protagonista. Anche i personaggi che popolano il mondo di gioco non sono più esseri caratterizzati da un’emotività banale e dispensatori di consigli o di quarti di cuore, ma persone che vivono e affrontano problemi reali, quali l’incapacità di avere figli, la morte di parenti stretti o le difficoltà del matrimonio (e quanti giochi affrontano simili tematiche?).
In Majora’s Mask la parte più difficile del gioco non è affrontare mostri ma aiutare le persone, il gioco della vita. Le sub-quest infatti sono numerosissime, e molte sono complesse come in nessun altro Zelda. Laddove completare il gioco è un’impresa relativamente rapida (sulla ventina di ore, rimaniamo comunque su livelli elevatissimi per gli standard odierni), completare tutte le sub-quest e, di conseguenza, ottenere tutte le maschere, è un lavoro per i pochi che avranno la costanza di studiare tutti i pattern comportamentali dei vari personaggi nell’arco dei diversi giorni.
Solo dopo queste considerazioni possiamo capire cosa voglia realmente rappresentare realmente Majora’s Mask. Mentre il gioco classico è metafora dell’evoluzione di un personaggio che conquista la sua maturità in un mondo fittizio (e dove l’obiettivo finale è quasi sempre una donna, o nel caso della serie Zelda, appunto, la principessa omonima), Majora rappresenta quella stessa crescita di un bambino all’età adulta ma in un mondo reale che non può che apparire, dal punto di vista di un bambino, come opera grottesca e paradossale, e che solo alla fine si rivelerà come tale, enfatizzando inoltre la facilità dei bambini nell’estremizzare le contrapposizioni (la storia di Majora’s Mask è infatti essenzialmente la storia di due bambini che si fanno dispetti), arrivando a compiere atti “malvagi” per motivi “sciocchi”.
Il personaggio quindi cresce dopo aver vissuto uno scorcio di vita, e dopo essersi reso conto dell’assurdità di quei dispetti tanto cari ai bambini e spesso crudeli.
Tutto questo ed altro è Majora’s Mask. E’ un gioco splendido da giocare, come ogni Zelda, ma soprattutto è un gioco maturo. Laddove il mercato odierno verte su prodotti vuoti, che spingono su aspetti apparentemente adulti quali la oramai sempre più dilagante sessualità sconcia e una violenza quasi sempre priva di significato o qualsivoglia spunto riflessivo (al contrario dell’utilizzo che se ne fa, ad esempio, in Shadow of the Colossus), Majora’s Mask è esempio raro di una bellezza profonda, non solo ludica.
Dove il gemello Ocarina of Time innovò nella struttura e nei contenuti ludici, esso innovò nei contenuti artistici, così come il suo fratello stretto The Wind Waker, ultimo Zelda degno di tal nome.
Un gioco che va giocato, ieri come oggi, per cogliere forse l’esempio migliore di una Nintendo che fu, non solo ludicamente, d’avanguardia e coraggiosa, doti che difficilmente ritroviamo nelle ultime sue uscite, appiattite sempre più intorno a schemi di successo per rispondere, purtroppo, alle crude esigenze commerciali (Mario Galassia a parte).
Nonostante l’età, semplicemente imprescindibile.
Gheizen
Ci scusamo per la pessima qualità delle immagini, ma con del materiale così scadente era difficile ricavar qualcosa di migliore.
Commentate questo articolo con un bel “nintendomerda” nell’Agorà.