La voce del padrone - { Curia, Delibere }
Darish, Sabato 28 Febbraio 2009 @ 10:53

Ci perdoni il grande Battiato per la fine citazione, ma il titolo era d’obbligo. I ragazzacci dell’Essex sono tornati a massacrare i nostri sound system. Tra i pochi sopravvissuti del mitico movimento techno anni 90, loro non sentono la crisi e tornano sul palco con pochissime rughe e inaspettata grinta. Il nuovo lavoro si chiama Invaders Must Die, ed è una dichiarazione d’intenti fin dal titolo. Un attacco ai cloni che hanno lucrato sul marchio di fabbrica della band, quella miscela balorda di elettronica, punk, hyperproduzione e una gran voglia di divertirsi.

 E loro si divertono anche più di prima, dall’alchimista storico Liam Howlett, ai due vocalist Keith Flint e Maxim, sempre insieme, oggi come vent’anni fa. E chi può rimanere seduto? La dimostrazione di assoluta supremazia nel genere da loro stessi inventato è talmente sfacciata che ne senti l’odore in ognuna delle 11 tracce che compongono l’album. Fuori dalle scatole quindi, mezze calzette. I Prodigy sono tornati, sono fottutamente vivi e semplicemente inimitabili. Si potrebbe parlare quasi di retrologia cinica, se non fosse che in quelle sonorità old school il vecchio Liam ci abbia lavato il pannolino. Appena partono i synth rave di Take me to the Hospital, World’s on Fire e Piranha (citazione allo Wipy?), un perverso sorriso si stampa sui volti di tutti quelli che hanno vissuto gli anni del proibizionismo chimico, le feste abusive, il genuino piacere anarchico nella sua rappresentazione digitale.

Hold it! Esclama Maxim, citando la stessa stringa della storica Rip Up the Sound System. E’ tutto un richiamo agli albori, dal clamoroso primo album Experience, fino alla perfezione di Music for the Jilted Generation. Ma Howlett non è un ingenuo, sa che simili revival vanno cucinati con diabolica abilità, caratteristica che mai gli è mancata. Ecco che stilisticamente i brani assorbono come spugne anche l’era technorock di Fat of The Land, e le stramberie trash di Always Outnumbered, Never Outgunned. E’ un tagliaerbe impazzito che assimila tutta l’esperienza passata e la ripropone con un occhio attentissimo ai trend odierni. I tre ubriaconi avevano promesso una bomba atomica di potenza e innovazione, in realtà si tratta di un passo assai più accorto, anche se incredibilmente questo non suona come un difetto. Semplicemente perché lo stile Prodigy è sempre stato avanti sui tempi da non risultare mai obsoleto o banale, anche dopo anni, nemmeno in un’operazione di autofagocitamento come questa.

Il disco si muove su due piani distinti quanto letali, da una parte il fanservice sfrenato e compiaciuto, tutto quello che serve per sparare la vecchia guardia nella stratosfera. Dall’altra una produzione magnetica e supertrendy per i giovani arrivi. Vedi che il tripudio vintage di Warriors Dance, con i suoi beats saldamente ancorati ai 90, la bassline mostruosa e gli orecchiabili campioni vocali (Do it!), rischia di diventare l’emblema delle nuove generazioni. Le polemiche sulla commercializzazione si sprecheranno, ma la realtà è che questo pezzo raderà al suolo i dancefloor della maggior parte delle località estive.

 L’album è considerevolmente corto, compatto e straordinariamente coerente, non ci sono filler, ovvero pezzi velleitari inseriti per far massa. Tutti i brani hanno qualcosa da dire, e ognuno porta con sè molte atmosfere degli inediti presentati ai vari gig mondiali, nonostante la produzione certosina faccia di tutto per non renderli noiosi alle orecchie dei superhardcore. Ed è il pregio migliore che riconosco nell’operato di Howlett (tanto avrete ormai capito che è tutta farina sua), specie dopo aver letto critiche asprissime sui forum di discussione, di come avesse abbandonato progressivamente l’hardware per passare a tools molto popolari come Reason. La magia non risiede nei mezzi, oggi alla portata di tutti, ma nelle idee e l’esecuzione. E questi sono avanti cent’anni a tutto, compresi i produttori più blasonati, che possono solo guardare con le dita in bocca. Non è un caso se artisti imprenditoriali come Madonna facciano il filo da sempre, ricevendo regolarmente picche. E Liam fa le bizze come da copione, prima vuole smettere, poi continua, poi fa sbavare la folla per anni, poi si presenta con look da trasandato della suburbia e ributta selvaggiamente tutti in pista con i suoi mostri distorti. Insomma, il successo non solo è assicurato, ma quasi banale.

Acquistate tutti il disco, se lo meritano, e non soffermatevi alla insipida title track, ci sono molte perle ad attendervi. Dal tripudio ragga di Thunder, un po’ Out of Space, un po’ Wind it Up. Oppure il secondo singolo estratto, Omen, in bilico tra pop music e cacofonia 8 bit. Ma non sarà il suo inquietante campanellino a trapanarvi la testa, piuttosto la balorda fanfara di Stand Up. Come un inno ai Delta college di Animal House, che festeggiano dopo aver distrutto ogni convenzione, questa giovinezza che sfuma. E dopo 40 minuti di futile e meravigliosa frenesia si tratta di una chiusura perfetta.

Altro che presagio, questo 2009 è la divina provvidenza.


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