Il Donovan che scrive Catch the Wind nel 1965 mica lo può immaginare che due anni dopo gli avrebbero dato del figlio dei fiori. Eppure quando il tempo arriva, e annusata la potenza mediatica del movimento più autocompiacente della storia sociale, non se la sente di rifiutarne l’etichetta, anzi. E’ così che arriva a incidere il suo album più debole, quell’A Gift from a Flower to a Garden che i That Game Company usano come concept per Flower. Un concetto quindi, un’idea, un piccolo squarcio su ciò che potrebbe diventare un giorno, tra tutte le altre cose che già è, questo media.
Prima cosa va detto che i That Game Company sono dei bugiardi, si fan chiamare così ma in due anni hanno ancora da sviluppare un gioco. Programmano esperienze, dandoti in mano un pad che non riconosci più. Qui c’è un miracolo, ti chiedi che fine abbia fatto il vecchio incerto sixaxis perché quel sensore non è mai stato così funzionale. Sei convinto di avere in mano il peggiore pad sulla piazza ma non te ne accorgi, non solo il sensore funziona ma è tutto l’accrocchio a sparire, non lo senti più, solo le tue dita e il resto è liscio, preciso, nessuna sbavatura. Un miracolo appunto, e per questo un minimo di attenzione loro se la meritano, ti mettono in mano l’improponibile e si permettono, con diritto, di insegnare da maestri.
Flower è inesorabilmente out, non ha alcuna collocazione videoludica, è senza storia e come i suoi creatori ha un incertissimo futuro commerciale. Ai Margini è, senza dubbio, la loro casa legittima. Eppure, e ha dell’incredibile visto il contenuto, qualcuno ha avuto il coraggio di produrli. I Santa Monica, un vero coup de théatre, proprio loro, quelli di uno dei giochi più tamarri sul mercato, che sganciano soldi per un qualcosa che con loro c’entra veramente pochissimo in quanto smaccatamente raffinato. Al di là del paradosso con me, devo ammetterlo, sfondano una porta apertissima. Per due motivi: per gli strumenti che usa nel suo non-narrare, coinvolgente nelle immagini e nel suono, e per il potente significato allegorico, non detto ma palesemente mostrato, racchiuso nel soffio di vita che ti si chiede di impersonare nei vari livelli. Un petalo che incontra altri petali, spinti da folate di vento sotto il controllo preciso del sensore, novella divinità dell’aere, in lande sognanti - alcune meravigliose altre da incubo - tra effetti non tanto sonori quanto musicali. Tutto profuma del XIX secolo più romantico e neoclassico, supportato da una realizzazione tecnica notevole, pieno XXI secolo di luci, colori, forme. Un appassionato di versi e tramonti, di libri e panchine dovrebbe sborsare gli 8 euro richiesti senza tentennamenti, perché in Flower si vanno a toccare corde molto sensibili, troppo sensibili, per pochissimi, essendo assente quasi completamente ogni compromesso ludico.
Ed è qui che Flower, per quanto valido, rischia il fallimento.
Mi permetto una digressione perché il prodotto la impone. Due sono le questioni di fondo, entrambe esterne alla qualità del prodotto in sé. La prima riguarda il mercato videoludico, che per sua natura fatica a comprendere e accettare un prodotto come questo, mancante quasi completamente dei canonici valori competitivi e ricreativi. La conseguenza, ovvia, è che Flower verrà catalogato occasionalmente come una buffa stranezza da qualcuno, un luminoso saggio tecnico e d’immagine fine a se stesso da qualcun altro, una porcata senza senso dai restanti. La seconda questione riguarda la critica che è chiamata, prima fra tutti, a trovare il modo di valorizzarne i pregi. Girarci attorno è peccato e quindi andiamo subito al sodo: Flower non diverte, ha una longevità limitatissima e una giocabilità inesistente (è presente il controllo ma manca quasi completamente il ludo). Eppure le qualità sopra espresse sono palesi. Come lo si giudica quindi? Va bocciato? Sminuito? Si potrebbe inserirlo in quel variegato marasma di casual gaming tanto caro a Nintendo ma sarebbe pura ingiustizia, perché è proprio al casual che Flower non si rivolge. Così come intendiamo oggi la critica videoludica, per Flower non c’è spazio di giudizio, ci possiamo permettere di assegnare di volta in volta un N.C molto politico, un 7 alla stima che vorrebbe promuovere ma non può per non inficiare le classifiche di Gamerankings e Metacritics, o un più sincero 3, analizzandolo secondo i trasparenti canoni dei giochini.
Ciò che andrebbe chiarito, a monte, è se riteniamo lecita la presenza di Flower e affini nella produzione videoludica. Se c’è posto per prodotti che relegano in secondo piano (o addirittura eliminano) la componente ludica, che sconfessano nella struttura l’appartenenza al genere ricreativo, che non presentano sfide o obiettivi, che sublimano il gameplay in interazione, che diversificano pesantemente l’offerta del mercato al punto da proporre qualcosa di profondamente “altro”, allora potremo vedere in Flower un titolo seminale, degno di essere esaltato e ricordato come archetipo. Altrimenti, accontentandoci di definire il videogame solo ed esclusivamente nel senso più stretto del termine e subordinandone il giudizio al gameplay, allora non vanno fatti sconti, vanno alzate le mani riconoscendo il titolo come non di nostra competenza.
Al di là di queste problematiche Flower rimane un esempio perfetto di quanto i confini videoludici siano, oggi più che mai, traballanti, soprattutto nel sempre più intrigante panorama indie. Un titolo audiovisivamente splendido, forte di un uso minimale ma sapiente del controller, capace di coinvolgere e di farsi ricordare.
Would be the sweetest thing, ‘twould make me sing,
Ah, but I may as well, try and catch the wind.