Forse siete già andati in basso a leggervi il voto, o forse no e credete di trovarvi di fronte all’ennessima recensione che coralmente premia l’ultima fatica dei Santa Monica Studios. Nel primo e nel secondo caso ecco che vi si da subito l’epilogo: no, God of War 3 non è il capolavoro che sembrava, non è uno dei migliori giochi dell’anno e non è neanche lontanamente uno dei migliori giochi della generazione. E questo lo dico non perché qui si è boxari, ma perché alla fine dell’avventura ti vien da dire: “Ok, ma dov’è il bello?”.
Quando ho chiesto di poter recensire Heavy Rain per Ai Margini, non avevo la più pallida idea di cosa mi sarei trovato a scrivere di questa esclusiva Playstation 3 tanto chiacchierata.
A dire il vero, sono tuttora indeciso, penna alla mano, su come giudicare l’ultima fatica di Quantic Dream, studio francese celebre per lo sviluppo di giochi che tendono a spaccare l’opinione pubblica. È consuetudine di David Cage, CEO e mente creativa del team, attentare allo status quo dei generi videoludici con progetti visionari: lo ha fatto con Omikron, lo ha fatto con Fahrenheit, ed è tornato a farlo con Heavy Rain. Un adventure? Un laser game? Un film? Inquadrare la sua natura è stato tutt’altro che facile: il gioco sembra prendere in prestito tanti elementi da altrettante categorie, condensandoli tutti in una veste che rimanda ai film interattivi in voga un paio di decenni fa. Io la mia scelta l’ho fatta: Heavy Rain è stato pubblicato sul mercato videoludico, da un team di sviluppatori di videogiochi, il prezzo è quello di un videogioco (il solito salasso), sarà quindi considerato come un videogioco e come tale verrà di seguito giudicato.
Non sono un feticista tecnologico. Non sbavo per il nuovo portatile ultrasottile e non sospiro malinconicamente davanti alla pubblicità dell’ultimo smartphone. Proprio per questo sono soddisfattissimo del mio Iphone 3G, pur sapendo che ormai viene considerato il modello base e che Apple ha tirato fuori altri aggeggi dopo il mio, più evoluti, più pratici, più fighi. Telefonate, sms, talvolta un passaggio veloce sulla posta elettronica o quella discussione interessante sul forum. Poche foto. Niente video, il mio modello non li fa. Ma tanti videogiochi.
Mass Effect 2 non c’entra quasi nulla con il primo. La fratellanza interstellare passa in secondo piano. L’umanità ha portato il caos nel cosmo. I rapporti ora si basano su contratti. Su impegni da sbrigare anche se non se ne ha voglia. Perché l’universo è ancora in pericolo e non importa che tu sia capitalista o comunista. Qualcosa da proteggere ce l’hai comunque. Fosse anche la pellaccia. E qua qualche dubbio ce lo poniamo. Perché l’inizio è frettoloso. Non indaga. Non si questiona sull’etica. Forse ci sarà tempo dopo. Ma la splendida introduzione è solo visuale e davvero poco concettuale.
Non capisco come possa non essermene accorto prima. Eppure la prova era davanti ai miei occhi dal 15 gennaio dell’anno del signore 2010, e ben prima davanti agli occhi di tutti gli altri spettatori mondiali. Ok, ho assistito alla sua messa in scena con (colpevole?) ritardo, ma il resto del mondo ha avuto un discreto vantaggio su di me e sui miei compatrioti, eppure nessuno altrove se n’è ancora reso conto. Per giorni uno straniante senso di colpevolezza mi ha attagliato. Poi l’illuminazione arriva inattesa da una discussione incrociata tra un blog e un twitter. Avatar è il Santo Graal, la Pietra Filosofale di cui l’editoria videoludica è alla tormentata ricerca da decine di anni. Avatar prova che il videogioco è una forma d’arte.
Di videogiochi scrivono in molti, con diverse competenze. Io, per fare un esempio partendo dal basso. Ma anche, e soprattutto, redattori, solutori, columnist, trend setter, giornalisti di costume, giornalisti e basta, giornalai e parolai. Per fortuna non Alberoni. Purtroppo perfino il Perfo. C’è però un’altra categoria che ha recentemente intensificato il proprio interesse per il medium videoludico. Si tratta degli accademici. La cosa non sorprende, e se lo fa è per il ritardo con cui la frangia nerdica universitaria mondiale ha trovato il modo di giustificare le lunghe sessioni notturne a WoW ricavandone pubblicazioni e benefici.
Le origini di Dragon Age:
C’era un tempo, circa due generazioni fa, in cui quel continente detto “dei Giochi Di Ruolo elettronici”, che si estende a largo delle coste del gameplay, ancora era selvaggio e quasi del tutto inesplorato. In quel torno di tempo, uniti sotto un unico vessillo, progettavano e modellavano idee un gruppo di creativi quanto coraggiosi programmatori, assurti, dopo aver plasmato e definito i connotati di un intero genere, al ruolo di divinità.
La fine di un anno coincide sempre con un periodo di riflessione su ciò che è stato, almeno per quanto riguarda le persone assennate. La fine di un decennio, poi, è occasione per ponderare quanto di buono e di pessimo ci è passato per le mani. E noi, che siamo ai margini, ma assennati, non potevamo esimerci dal condensare in un articolo il meglio e il peggio del decennio appena passato. Dimenticatevi Gamespot e Edge, tutta roba insulsa, perché questo è l’articolo più ambizioso e meno lucido della storia di AM: gli anni zero del ghemplé secondo ciascuno dei nostri redattori, a cui è stato chiesto quale gioco hanno apprezzato di più, qual è stata la peggior caata del decennio, quale il colpo mancato, la miglior piattaforma, il miglior gioco dai decenni precedenti recuperato in quello passato e, per ultimo, il miglior gioco del 2009, corredato dalla classifica stilata attraverso un sondaggio nell’Agorà per sapere l’opinione anche di voi lettori.
È venuto fuori un mostro informe, un fiume di caratteri di cui già leggo le lamentele, ma c’importa una sega, ciò che è dovuto è dovuto!
Buona lettura.