Le origini di Dragon Age:
C’era un tempo, circa due generazioni fa, in cui quel continente detto “dei Giochi Di Ruolo elettronici”, che si estende a largo delle coste del gameplay, ancora era selvaggio e quasi del tutto inesplorato. In quel torno di tempo, uniti sotto un unico vessillo, progettavano e modellavano idee un gruppo di creativi quanto coraggiosi programmatori, assurti, dopo aver plasmato e definito i connotati di un intero genere, al ruolo di divinità.
C’era fervore creativo, c’era il desiderio di creare giochi memorabili soprattutto per la storia e per l’interpretazione di un ruolo al suo interno, c’era un nuovo mondo da (far) scoprire, e vennero i Baldur’s Gate, i Fallout, gli Icewind Dale, e meraviglia e gioia portarono tra gli adoratori, e questi ricambiarono con sincero affetto e amore.
Ma avvenne che qualcosa si incrinò, un ingranaggio sfuggì al suo alloggio e sovvertì gli equilibri universali. La grande casa si dissolse, gli eroi si dispersero, alcuni ebbero più fortuna di altri, nere isole sprofondarono; altri ancora, che provavano forte interesse per la vita, prosperarono e con rinnovato vigore forgiarono nuove storie, modellarono nuove creature, cantarono di nuovi universi. Avvenne che l’epoca d’oro dei GDR concluse il suo ciclo, e, sebbene nuove opere videro luce, molti si rattristarono e piansero, poiché il re dei GDR era invecchiato e ingrigito, e ancora un erede non era nato, sicché nessuno avrebbe potuto raccogliere il lascito e compiacere i fedeli.
Due fumate grigie si levarono, quando tutti furono concordi nel sentenziare che ancora un degno successore non si era palesato. Poi, tra lo stupore generale, giunse un araldo con un messaggio rivolto ai fedeli: l’erede di Baldur’s Gate sarebbe giunto e si sarebbe chiamato Dragon Age. Sicché tutti esultarono e gioirono per la rivelazione. Ma una serie di incidenti rallentarono il cammino del principe, prolungando il suo viaggio per ben un lustro. Il tempo ne indebolì affatto il vigore, canuto e claudicante si manifestò a tutti con il peso di una vecchiaia che ne segnava i tratti, e le perplessità serpeggiavano tra le comunità di videogiocadoratori. Ma la costituzione del pretendente era forte e, nonostante le canizie e le incertezze, egli ebbe modo di dimostrare il suo valore, poiché la stirpe era pur sempre quella divina dei Bioware.
Il ritorno del re fuori tempo massimo (ovvero “eppur si muove la vecchia carcassa putrescente”):
L’andatura è goffa e l’armatura non più rutilante come una volta, la spada un po’ smussata. Su di sé grava il fardello di doversi dimostrare degno della casata cui appartiene, ma non è bastata una bombardante campagna pubblicitaria per dissipare il velo di perplessità sui suoi riguardi. Dubbi giustissimi di una schiera di fan, che già un po’ di anni prima subì una cocente delusione con un altro sedicente successore, perché Dragon Age puzza di muffa lontano un chilometro. Le solite meccaniche Bioware, la solita inesistente, atterrente (considerando che siamo nel 2010) interattività con l’ambiente, lo stesso sistema di combattimento, finanche i medesimi modelli dei personaggi. Tutto è stato già visto. Già provato. Già approvato… anni fa.
La grafica è imbarazzante, ma a questo i canadesi ci hanno abituati, se si esclude la serie di Mass Effect. Si inorridisce davanti ad un tale squallore degli ambienti. Attenzione, qui non si contesta la mera resa grafica, la risoluzione delle texture o il numero di poligoni, qui si discute la totale, sconcertante assenza di vita nelle location. Non si vede un uccello volare, un topo muoversi tra il granturco, nessun movimento sospetto tra i cespugli, nessun vagabondo per le strade di collegamento. Niente di niente. Una desolazione che si rende evidente negli insediamenti urbani. Né le baraccopoli, né le grandi città rendono bene l’idea di essere luoghi abitati da persone. Lothering è un piccolo borgo sul punto di essere invaso dalla Prole Oscura, dove sono gli sfollati che rubano tozzi di pane? Gli sciacalli che entrano nelle case per rubare oggetti lasciati indietro dalle famiglie? Dove le madri e i padri che caricano tutti i beni trasportabili sul carro? Il cane denutrito che si ciba di scarti, i sacerdoti che benedicono la povera gente terrorizzata, i mendicanti straccioni, i templari che offrono assistenza, insomma, dov’è la disperazione? Fermi. Sono tutti lì ad aspettare voi per interloquire (o per liquidarvi con una frase scriptata).
Quando ho varcato la porta della città imperiale di Denerim, ho avuto la sensazione di aver sbagliato l’itinerario sulla mappa. La piazza del mercato è deserta, non c’è neanche un manichino scriptato che si lamenti del prezzo troppo alto delle merci o che si prodighi in altre azioni precalcolate al fine di creare “atmosfera”, “Dwarven craft, dwarven craft” strilla un mercante nano, null’altro. Questa è la parte più popolosa della città, anzi, l’unica. Ancora una volta, a pesare non è la resa grafica, di per sé ignominiosa, quanto il vuoto pneumatico in cui ci si muove.
Il ciclo giorno notte è assente ed è una scelta che posso rispettare, quello che non si capisce è il motivo che ha portato i programmatori a predisporre una sola condizione climatica e un solo tipo di illuminazione per ambiente; sicché capita di ritrovarsi illuminati sempre dalle stelle, al lago Calenhad; di giungere a Denerim sempre a mezzodì, o di non ritrovarsi mai sotto un acquazzone, e via discorrendo. Le uniche variazioni atmosferiche riscontrabili (sempre precalcolate) avvengono durante quest particolari, come, ad esempio, la leggera pioggerellina che bagna i soldati durante la battaglia di Ostagar; oppure a Redcliffe, dove l’unica volta che il sole scende dietro le colline è durante l’assalto dei non-morti.
Sono cose che, onestamente, lasciano un po’ perplessi; bisognerebbe domandarsi perché non sia stato fatto un lavoro di fino sull’atmosfera: non avendo potuto spingere sull’imponenza grafica, avrebbero dovuto puntare sull’empatia. Tali manchevolezze emergono nei momenti in cui si mette da parte la catena di missioni principali e ci si dedica alle secondarie o all’esplorazione, oppure ancora nel “vivere” il ruolo che si sta interpretando: entrare in un locale, ascoltare il cantastorie, tutto questo viene affatto scongiurato, eppure dovrebbero essere l’essenza del giocare di ruolo.
A proposito delle missioni secondarie, nei crani dei game designer dev’essersi calcificata l’idea che servono solo ad allungare il proverbiale brodo. Forse non hanno ancora capito che non c’è niente di più odioso di dover girare per il Ferelden a consegnare lettere, terminare tizio o caio, trovare le ultime volontà sul corpo di Sempronio per consegnarle a … {beh, ho finito i nomi buffi}, basta, sul serio, se proprio devono essere così fiacche, che se ne riducano di numero e si lavori sulla loro caratterizzazione. I giocatori hanno bisogno di qualcosa di memorabile, nemici di cui ci si ricordi a distanza di anni, non del pacco da consegnare per Janny la Rossa e altre cose di questo genere.
Un altro paio di cosette, poi passo ai thumb-up, promesso. Sopportatemi per altre quattro/cinquemilacaratteri (sto scherzando).
Questo è un difetto che riguarda parecchi titoli del genere (e non solo), sto parlando del bilanciamento tra le classi. È possibile infatti scegliere tra un certo numero di “professioni” al momento della creazione del personaggio, ve ne saranno diverse disponibili per ogni razza e andranno ad influire sull’origine cui siamo destinati, nonché sulle abilità che avremo a disposizione. Se da un lato possiamo apprezzarne la rigidità del sistema (un guerriero rimarrà sempre un guerriero e mai potrà apprendere arti arcane, ma potrà scegliere tra quattro specializzazioni in base alle sue attitudini), da un altro punto di vista non si può ignorare la mancanza di bilanciamento nello stesso. Chi scrive ha terminato il gioco con due personaggi agli antipodi: un nano guerriero-berserk incazzoso e specializzato in armi a due mani, quali claymore, asce bipenne e battipanni, e un mago-umano devastatore, saggio, carismatico e porcellone (poi vi spiego).
Ora, sarà pur vero che, nei dialoghi, [intimidazione] è speculare ad [astuzia] e che entrambe portano a delle risposte, ma è inoppugnabile il fatto che nei combattimenti il mago è una furia incontenibile e alla sua cagionevole salute può rimediare con incantesimi prolungati nel tempo, mentre il damage dealer, per quanto possa menar forte e squarciare tutto lo “squarciabile”, sarà sempre svantaggiato rispetto al primo. Pur avendo percorso le stesse strade con il medesimo livello di difficoltà, la sessione durante la quale ho interpretato il mago è stata ampiamente più agevole, senza aver quasi mai dovuto ricaricare un salvataggio precedente ad una sconfitta. Per non parlare poi dell’inutilità di alcuni personaggi e della mai impellente necessità di cambiare formazione dalla perfetta “Tank - Mago - Guaritore - PG”.
Fiori sul letame:
C’è una cosa però in cui i Bioware sono maestri, ed è la straordinaria passione e accuratezza con cui definiscono il background storico dei loro giochi. Con Dragon Age non sono stati da meno. Il lore è imponente e si dispiega man mano che si prosegue nell’avventura. Attraverso il codex – una volta si chiamava diario –, scomodo e inopportuno strumento, è possibile consultare la storia e le leggende, i canti e i culti del Ferelden, e il grado di immedesimazione è elevatissimo, a testimonianza del grande lavoro svolto dai canadesi. La storia mescola tanti cliché fantasy intinti in litri e litri di vernice rossa senza aggiungere nulla di nuovo, ma è un lavoro di gran mestiere e sa appassionare il giocatore. Si tratta della solita minaccia alla quale si contrappongono un gruppo di eroi denominati Custodi Grigi, che da secoli difendono pace e libertà dai flagelli, ovverosia invasioni di esseri immondi provenienti dal sottosuolo, i Prole Oscura, sorta di orchi, ma ridisegnati e resi più anonimi di quanto ci si possa aspettare, e guidati da un Arcidemone, un Dio dei tempi remoti dalle sembianze di drago toccato dalla corruzione. Dopo aver terminato una delle ”origini”, biografie/tutorial invero ben scritte e coinvolgenti, il protagonista viene assoldato da Duncan dei Custodi Grigi proprio in occasione di una battaglia molto importante. Questo è lo snodo da cui prenderanno il via gli eventi e le situazioni che il protagonista è chiamato a risolvere. Apprezzabile in ogni caso è la regia, questa davvero presa a piene mani dalla spettacolosità di Peter Jackson e dalla sua trilogia anulare. Alcuni frangenti rievocano la drammaticità della battaglia presso il fosso di Helm, così come le gallerie di Orzammar, la città dei nani, che rimandano in maniera esplicita a Moria e agli orrori che vi si annidano.
Similmente degna di elogi è la caratterizzazione dei personaggi, le cui personalità sono davvero state scritte a regola d’arte dagli sceneggiatori. Sono soprattutto la loro ambiguità e le diverse chiavi di lettura dei loro caratteri ad affascinare: il paternalismo di Duncan e la crudeltà dei suoi metodi, la benevolenza di Eamon e la sua malcelata volontà di estendere la propria influenza sulla corte, la lealtà di Alistair e la sua sesquipedale stupidità. Di Morrigan si potrebbe scrivere per pagine e pagine, la costruzione del suo personaggio, per il quale hanno affondato la vanga nella tradizione celtica-irlandese, ha dell’ammirevole.
I rapporti che possono instaurarsi all’interno del gruppo possono fornire sviluppi interessanti e sfociare in rapporti di amicizia fraterna e non solo. Sinceramente, questa piega erotico-voyerista che hanno preso le ultime produzioni Bioware sa di ridicolo e sembra solo un goffo tentativo di attirare l’attenzione anche di chi non mastica i GDR, posto che l’ingropparsi un pg può diventare una sfida ardua e non meno avvincente di una sidequest qualunque (sono due sessioni che punto alla vecchia col diavolo in corpo). Nel gruppo si ripercuoteranno gli esiti delle nostre scelte e questa dal karma bipolare è una grande liberazione, l’abolizione un arcaismo di cui non se ne sentiva più il bisogno. Viene consentito in questo modo un approccio più “sfumato” e libero, senza l’assillo del lato oscuro/lato chiaro ad ogni azione svolta; se, ad esempio, si manda a quel paese una sacerdotessa petulante, si guadagnerà la stima dei compagni più avulsi al culto del Canto, ma, per contro, si perderà la fiducia dei filo-clericali del team.
Se bisogna muovere un appunto alle relationship, si può dire che le proprie azioni non sortiscono effetto alcuno sugli NPC. Se, per esempio, il personaggio fosse un ladro, sarebbe bello se la sua fama gli permettesse di entrare nelle grazie di gruppi criminali o di avidi collezionisti, nonché l’attenzione delle guardie, che potrebbero seguirne con sospetto le mosse. Purtroppo la reputazione dell’avatar non raggiunge orecchie all’esterno del gruppo.
Le quest principali sono ispirate, coinvolgono e appagano il nerd che è in ognuno di noi. Di rado vengono proposte soluzioni che non prevedono lo scontro, tuttavia il gioco pone spesso il giocatore davanti a bivi, i cui sentieri portano ad evoluzioni diverse degli eventi, o danno una parvenza di “binarietà”. Ricordo con piacere quella relativa alla ricerca delle ceneri di Andraste, caratterizzata da un’atmosfera Lovecraftiana opprimente, e la spedizione nelle miniere dei nani, sotto le montagne gelide, tra golem e abominazioni nequitose. Il battle system non è certo un pezzo d’avanguardia. Funziona, è collaudato e ricorda molto quello di Knights of the Old Republic, pur seguendo un sistema di regole nuovo, escogitato apposta per DA:O. Forse le magie peccano di spettacolarità, ed alcune sono superflue, ma il loro lo fanno e rendono comunque la classe del mago la più divertente. A parer mio, un sistema simile è anacronistico, ma bisogna ammettere che costringe ad una certa pianificazione delle mosse, portando la sfida ad un livello piuttosto alto.
Il sette lo si dà agli scemi che imbroccano il compito della vita, oppure ai secchioni che non si confermano ai loro standard e si cerca di non rovinargli troppo la media.
Per apprezzare Dragon Age, bisogna adottare un approccio sincronico, astrarsi dal fattore tempo e far finta che sia uscito quattro anni dopo Baldur’s Gate II, allora sì che potremmo dire di avere tra le mani un gioco di ruolo con cui rasparci.
La verità è che si tratta di monumento al genere, rappresenta la summa di tutta l’esperienza di Bioware nel settore. Spero non ne escano più di giochi così, sul serio. Spero in un boost di innovazioni che seppellisca tutto ciò che è stato, in questo dovrebbe riuscire l’erede di Baldur’s Gate.
Eehh, lo so, sono un inguaribile ottimista.
PS: Voto a chi gli ha conferito l’eccellenza: 1, dare un voto più alto di 7 a Dragon Age è la dimostrazione della marcescenza che coinvolge l’editoria videoludica, più dei giochi che recensisce.
Commenta questo articolo, e lamentati del 7 o dell’analisi del combat system, nell’Agorà!
Si vede che t’è piaciuto da morire. In realtà non può essere diversamente, ci trinci quintalate di ore, ti stuzzica, ti ammorba, ci sguazzi in quei menu, quasi ti pasticci sulla mappina. Nonostante quello è anche vero che mi son messo a scrivere la review e non mi usciva nulla, un pugno di righe confuse, chiudi, volete salvare le modifiche, esci. Son sempre stato contrario al voto che fa media fra cosa è buono e cosa non lo è (o meglio: non lo è più) ma a dargli il votone dopo averne parlato con entusiasmo proprio non ce la facevo… Boh, forse c’è davvero più marcio di quanto credessi in questa generazione…
Il fatto che talvolta sia vero non toglie che il commento al voto sia un azzardo generalista. Un appassionato di gaming classico ha tutto il diritto di dargli 9. Tu di dargli 7.