Il Santo Graal è su Pandora - { Oggi ai Margini }
Dr. Klaude, Giovedì 4 Febbraio 2010 @ 15:21

Non capisco come possa non essermene accorto prima. Eppure la prova era davanti ai miei occhi dal 15 gennaio dell’anno del signore 2010, e ben prima davanti agli occhi di tutti gli altri spettatori mondiali. Ok, ho assistito alla sua messa in scena con (colpevole?) ritardo, ma il resto del mondo ha avuto un discreto vantaggio su di me e sui miei compatrioti, eppure nessuno altrove se n’è ancora reso conto. Per giorni uno straniante senso di colpevolezza mi ha attagliato. Poi l’illuminazione arriva inattesa da una discussione incrociata tra un blog e un twitter. Avatar è il Santo Graal, la Pietra Filosofale di cui l’editoria videoludica è alla tormentata ricerca da decine di anni. Avatar prova che il videogioco è una forma d’arte.


Pare incredibile che Avatar, un prodotto che poggia il suo valore sulle traballanti gambe del hype, possa essere portatore di un messaggio così prezioso. Infatti Avatar di per sé non prova nulla sul piano videoludico. Nemmeno su quello cinematografico a dirla tutta. L’opera di Cameron è una brillante intuizione, il primo esempio di antemodernismo, l’opposto malvagio della cinematografia tarantiniana. Se nel cinema di Tarantino la costruzione dell’opera inizia dalla somma di citazioni, omaggi e rimandi, ma sfocia in un risultato dal valore infinitamente superiore a quello ottenibile dalla banale addizione delle parti, qui il risultato è opposto. Avatar è inferiore alle numerose opere che cita. A partire dal dato grezzo,  le citazioni non sono abilmente incastrate in un mosaico dove già a breve distanza le tessere scompaiono in una sfumatura omogenea di colore, al contrario ciò a cui si assiste è un pastiche in cui lo scotch che tiene insieme le varie componenti è ben visibile all’occhio attento quanto a quello distratto. La morale antibellica è un riassunto di una riga in corpo 36 di quella di Starship Troopers, a cui si può concedere almeno di essere stato estremamente, e immeritatamente, sottovalutato. Le scusanti iniziano a mancare, però, quando si perde con Aida degli alberi lo scontro sul messaggio ecologico. Il monte dei pegni da cui Cameron ha pescato a piene mani spazia dalle sue produzioni (Michelle Rodriguez ripetutamente incastrata nel ruolo dello stereotipo di un personaggio che ricalca se stesso/a, massima esponente del metodo Matrioska) ai capisaldi fantascientifici (riciclando l’idea del risveglio in un altro mondo da Wachowsky o ambendo, purtroppo per lui invano, alla costruzione di un’epica ed una mitologia irripetibile senza le condizioni che le partorirono nella mente di Lucas) e non (da Tolkien in poi l’adunata delle diverse fazioni non se la fa mancare nessuno).
Dalla rete con cui ha saccheggiato il fondale Cameron non ha estratto solo opere cinematografiche, ma anche vecchie cartucce, una raccolta di giochi per PC in scatole di cartone ed una 360 rrodata. L’interesse del videogiocatore viene infatti più volte pungolato nel corso della visione dalle tracce videoludiche che emergono qua e là durante l’epopea Na’vi. Il credito verso Matrix a ben vedere viene sminuito osservando come la sequenza del trasferimento della psiche dal corpo umano a quella di carne ed ossa avvenga attraverso una rappresentazione digitale sorprendentemente simile a quella di Omikron – The Nomad Soul: un gioco che ha dieci anni sul groppone ed al tempo rompeva il quarto muro chiedendo esplicitamente al giocatore di abbandonare il proprio involucro e lasciare che la mente trovasse rifugio all’interno di un avatar digitale. Quando si dice la coincidenza. Alla luce di ciò il plagio del Lancer di Gears, le pose alla CliffyB e i mezzi aerei di Halo sono un dettaglio su cui si sorvola volentieri.

Il collage appena presentato non prova tuttavia nulla nei riguardi del videogioco se non si tiene in conto una variabile esterna: il pubblico e la critica. Avatar è stato lungamente atteso come il messia in grado di scaraventare, volente o nolente, il cinema in una nuova dimensione da cui non sarebbe più stato possibile tornare indietro. Nonostante le premesse non abbiano di certo trovato concretizzazione nelle oltre due ore proiettate su schermo,  l’approdo del film  nelle sale è stato accolto a livello mondiale come un evento, e nessuno in Italia ha voluto essere da meno.
La rivoluzione però pare intanto rimandata, il 3D novello Che Guevara ha fallito nel riunire le masse alle sue spalle. L’aumento della profondità di campo non dà nulla al cinema che non sia già stato donato dall’elaborazione cerebrale delle immagini provenienti dagli occhi: la tridimensionalità ce l’abbiamo messa noi spettatori per cento anni e potremmo continuare a farlo senza mezzo chilo di occhiali sul naso. La presenza di una terza dimensione artificiale in Avatar non fa altro che aumentare la sensazione che il pubblico di riferimento sia stato disegnato sull’immagine di una vittima di lobotomia al lobo frontale, incapace non solo di capire l’intricato (se il lobotomizzato legge: è un eufemismo) background della vicenda, da cui il continuo spiegone incastrato nei dialoghi, ma tanto meno di astrarre a sufficienza durante la visione così da comprendere che le figure bidimensionali sul telo vogliono rappresentare un ambiente tridimensionale.
Quel che rimane è un comparto tecnico innegabilmente eccezionale, la migliore produzione in computer grafica di sempre e in generale un buon lavoro di regia, soprassedendo su alcuni crolli nel banale, ma quasi viene il sospetto che siano voluti.
Eppure Avatar è un capolavoro per molti voce critiche, fa incetta di votoni tra i tamarri, ma si porta a casa lodi anche dai critici più radicalsnob. Cos’è successo? Un cortocircuito? Il paradosso dell’indie, che immaginando come i suoi simili lo avrebbero stroncato perché tamarro fa la Kansas City, ma si trova in abbondante e inattesa compagnia nel branco di indipendenti scriptati (questa l’ho già sentita NdAries)?

Qualunque cosa sia successa, un film banale da molti punti di vista, dalla trama fino alle meccaniche, è oggi incensato grazie a una grafica spaccamascella. “No” – si dice – “è un capolavoro di intrattenimento, perché fa bene ciò che deve fare”. Anni ed anni di dibattito in seno all’intellighenzia videoludica per stabilire se un gioco posso assurgere al rango di pietra miliare solo in virtù di poligoni e shader spazzati via in un lampo. Sì, si può!. Come corollario però le meccaniche ludiche sotto i muscoli del motore grafico devono essere oliate alla perfezione. E se Avatar può essere definito un capolavoro su queste basi, senza che le gote si arrossino per la vergogna, allora anche Half-Life 2, Gears of War e Uncharted 2 son capolavori. Niente di nuovo in tutto ciò.
Si può dire però che sono capolavori artistici? Se un metro di giudizio che funziona per individuare i prodotti più validi nel campo videoludico viene inconsciamente adottato da critica e pubblico nel giudizio di una forma artistica riconosciuta, si può estendere al videogioco la valenza artistica?
Il problema non si pone, nessuno nell’elite del giudizio artistico pare intenzionato a farlo; il punto è un altro. Non sarebbe svilente se fosse un brutto videogioco su pellicola digitale ad elevare il rango del medium videogioco? Oppure, per essere seri per un istante: ci accontenteremmo, da videogiocatori, di vedere riconosciuta la dignità del videogioco a queste condizioni?
In attesa di una risposta reistallo Omikron.


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