Scrivo questo articolo per due motivi.
Il primo è che mi conviene: avevo preparato un budget-barbone di 100 euro da donare ad Aries in cambio del restyling del mio blog e, sorprendentemente (per me), Aries ha rifiutato di essere pagato e ha proposto, piuttosto (a proposito, “piuttosto” ha valore avversativo, non disgiuntivo – lo dico perché pure qui AiMargini l’ho visto usare “male”, e viste le ragioni socio-politiche dietro l’uso “cattivo” del termine mi sono sentito in dovere di specificarlo, ecco) piuttosto, dicevo, ha proposto un baratto: restyling in cambio di un articolo per AM. Visto l’atroce inizio di questo pezzo, sono sicuro che si sia già pentito della scelta.
Il secondo motivo è che AiMargini mi ha cambiato la vita.
Prima che vi esaltiate: non trovo particolarmente interessante od originale questo blog, né incredibilmente brillante, e soprattutto mi pare poco vitale, insomma, visto dall’esterno mi sembra un covo di vecchi giocatori anziani ormai troppo svogliati per cercare di intrattenere un dialogo razionale con le giovani generazioni. Ad ogni modo apprezzo molto il clima che si respira qui dentro, c’è molta anidride carbonica. Dovreste solo cercare di rendere meno statica di Felipe Massa questa homepage.
Quindi: AiMargini mi ha cambiato la vita; la mia vita artistica quantomeno, e vi assicuro che la mia vita artistica ricopre un buon 40% della mia giornata, ore di sonno comprese. Non l’ho mai detto a nessuno, nemmeno alla persona che ha scritto l’articolo, ma questa mi sembra l’occasione giusta per farlo. Il motivo per cui non l’ho mai detto non è timidezza, piuttosto rispetto: rispetto per una vera, autentica passione, e ho sempre trovato molto scontato e scorretto e potenzialmente stupidino cercare di condividere un’autentica “passione” di qualcuno quando non si è assolutamente certi di provare un’emozione simile, e si è certi di provare un’emozione simile solo se la si è già esperita in precedenza in qualche campo.
Io in questo sono quasi patologico – tendo a fissarmi eccessivamente con qualunque cosa mi piaccia davvero – e quindi so bene quanto possa dare fastidio sentirsi dire “sì sì piace anche a me” “sì, anch’io” “sì, sono come te” nei casi in cui non-è-vero: e, credetemi, è molto facile percepire, per un invasato, quando non è vero. Non è qualcosa che ha a che fare con la semplice conoscenza, la conoscenza è una conseguenza del proprio “amore”: non so che Jim Morrison è sagittario o che Thom Yorke è bilancia o che Mozart si chiedeva quanto puzzassero i peti del papa per finalità gnoseologiche, so queste cose perché sono tre persone che hanno arricchito la mia esistenza, e questi dati non mi danno una sensazione diversa dal ricordarmi la pizza preferita di un mio amico o la data del suo compleanno. Tutto questo per dire che in quell’articolo avevo percepito quel particolare e inconfondibile ibrido tra vita privata e conoscenza che secondo me è alla base di ogni “passione” (giuro che è l’ultima volta che uso questa parola da qui alla fine). Adesso, credo, posso dire senza vergognarmi “sì sì piace anche a me” (e, notate, sono passati circa due anni).
Per tagliare corto, l’articolo di cui parlo è La verità ti renderà libero, ma solo quando avrà finito con te, scritto da Mauz (adesso questo “pezzo” che vale un restyling potrebbe essere percepito come un’enorme lappatona di culo visto che Mauz è uno dei due editori italiani a cui ho proposto il mio progetto/storia/fumetto); l’articolo è stato scritto qualche minuto/ora/giorno dopo la morte di David Wallace. Avevo già sentito parlare, all’epoca, di Wallace (anche se lo conoscevo così poco che nella mia mente distorta l’avevo fuso all’autore di Big Fish), ma diciamo che fino a inizio 2009 ho letto, volontariamente, pochissima narrativa contemporanea. Questo perché ero – e resto – convinto che conoscere il passato sia fondamentale per comprendere le opere del presente, e sono convinto che sia ancora più necessario per quanto concerne la letteratura contemporanea. Insomma, senza aver letto Sterne, Flaubert, Woolf e altri non credo abbia senso, a meno che non si voglia mettere degli occhiali tondi e una giacchetta marrone e andare in giro a fare il fighetto radical chic citando Updike, non credo abbia senso leggere – seriamente – Barth/Pynchon/Wallace (eccecc). Il giorno che lessi l’articolo di Mauz, misi in lista David Wallace. Ho iniziato a conoscerlo – perché è così grandioso e vulcanico e gargantuesco che semplicemente lo conosci, piuttosto che leggerlo, e per conoscerlo voglio dire conoscerlo come si potrebbe conoscere una persona al pub, non come si conosce un’informazione – nell’estate 2009, con una serie di saggi assolutamente eccezionali. Adesso, a metà 2010, ho letto praticamente tutta la sua bibliografia (compresi tomi inutiletti per fan sfigatelli come Although you end up becoming yourself), e scrivo “praticamente” perché l’unico libro che mi manca è Infinite Jest, ritenuto il suo capolavoro – anche se, da ignorante, dubito fortissimamente possa essere migliore o più brillante di Una cosa divertente che non farò mai più – e ho quasi paura di iniziare a leggerlo (non l’ho nemmeno comprato) perché poi, Pale King escluso, non ci sarà più nessuna Wallace-storia da assaporare.
AM mi ha cambiato la vita (artistica) perché Wallace è uno dei tre autori su cui mi sono focalizzato nell’ultimo anno, e probabilmente è quello che ha fatto evolvere maggiormente la mia narrazione. Non parlo di squallida imitazione – imitare Wallace è impossibile a meno che non si abbiano dodici cervelli, e io al massimo arrivo a sette – ma di ispirazione, pura, semplice cristallina ispirazione che porta all’analisi approfondita e meticolosa e scientifica delle opere di uno scrittore/artista, così da comprendere perché è così bravo, figo e come mai ti sappia far leggere così a lungo senza lasciarti un attimo lo stomaco e senza scordarsi mai, nemmeno per un periodo, di stimolarti intellettualmente. Gli altri due scrittori su cui mi sono concentrato dall’estate 2009, se siete curiosi, sono, per motivi diversi, Haruki Murakami (consigliatissimo anche agli appassionati di videogiochi) e Virginia Woolf (sconsigliatissima agli appassionati di videogiochi).
Citare Murakami e Virginia Stephen (sì, sono nerd, ma in quanto a letteratura si dice snob, e a differenza del nerd videogiocoso lo snobino ha una certa dignità sociale e viene rispettato dalle persone, ma nel profondo sono la stessa cosa – ve lo assicuro perché appartengo a entrambe le categorie e non percepisco grosse differenze nel mio approccio da sociopatico, quel che cambia è, appunto, la diversa considerazione che dà la gente alle due materie e il diverso valore sociale/qualitativo che gli si attribuisce) citare questi due, stavo scrivendo, mi permette di entrare nella parte finale dell’articolo e di “arrivare al punto”, e finalmente parlare di videogiochi e giustificare tutte queste nozioni autobiografiche che, suppongo, non potrebbero interessarvi di meno. Prima di virare completamente devo rivelarvi un ultimo elettrizzante dettaglio: nel 2006, finite le superiori, ero indeciso, fortemente indeciso, su come proseguire gli studi. Sicuramente mi sarei iscritto a lettere (ho gli occhiali tondi e la giacca marrone, ma ho smesso di leggere LaRepubblica e la giacca la metto poco, e spesso porto mutande marchiate Nintendo), ma, oltre a questo, ero in dubbio se iscrivermi alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze (in cui si studia, come potrete immaginare, fumetto [pratica e teoria, con forte propensione verso la prima]) o a una scuola a Roma in cui avrei ottenuto le competenze necessarie per (tentare di) fare il game designer / grafico.
Per riassumere brutalmente, dovevo scegliere se portare avanti un percorso artistico in area fumettistica o in area videogiocosa (oltre che in quella letteraria). Il paragone tra fumetti e videogiochi non è così assurdo come potrebbe sembrare: sicuramente il mondo dei comics ha prodotto opere di un livello artistico, estetico e culturale più alto (Maus e Jimmy Corrigan, per citare quelle più palesamene altolocate), ma entrambi sono delle mezzeseghe (come maturità, non come potenziale) rispetto, che so, al cinema (per non parlare di altri mezzi espressivi praticati da quando utilizzavamo le clave per fare fuori quegli stronzi di Neanderthal).
Io ho scelto di fare fumetti.
Ora, indipendentemente dai risultati che otterrò, indipendentemente da quello che farà Alessandro Bacchetta, ciò che mi interessa sottolineare è che non solo il videogioco ha fatto pochi passi in avanti – dal punto di vista estetico/artistico – da quando è nato (e questo lo notano tutti), ma che un giovane dalle ambizioni artistiche “serie”, nel 2006, un giovane che è cresciuto a pane e Nintendo e livelli di Mario 3 (e Final Fantasy e altre “puttanate” varie, metteteci che vi pare) e che appunto nel 2006 è arrivato alla scelta decisiva, difficilmente avrà optato per i videogiochi; questo nonostante il potenziale dei videogiochi sia immenso, e io, come tutti gli altri me del mondo, lo conosca benissimo. Proprio questo è preoccupante: io, che gioco dalla veneranda età di 3 anni e scrivo articoli sui giochini da quando ne ho 13, ho scelto di non tentare; figuriamoci che interesse potrebbero avere per i videogame dei proto-artisti più snob cresciuti a pane, Joyce e Munch. Mi dispiace dirlo, ma credo che la situazione difficilmente possa cambiare prima che molti di quelli che stanno leggendo queste frasi saranno morti. Ci sono così tante concause, così tante intersezioni, così tanti ostacoli che si frappongono tra il videogioco come mezzo espressivo e la sua maturazione che non riesco, non ci riesco davvero, a essere ottimista. Vorrei illustrare la situazione per come la vedo (vivo) io attraverso una metafora facilmente comprensibile, che parte dall’associazione game designer = scrittore. Ecco, se il game designer fosse uno scrittore, un aspirante scrittore, e volesse scrivere qualcosa di serio, di “alto” e impegnativo, si troverebbe di fronte a una marea di difficoltà, tra cui: della carta su cui scrivere terribilmente costosa e ardua da trovare; degli editori/tipografi che non hanno voglia di rischiare e che pensano di essere scrittori e vogliono modificare qualsiasi parte parzialmente difficile/poco comprensibile; delle penne magiche che fanno scrivere meglio, davvero meglio, che permettono di usare delle parole altrimenti inconcepibili, ma che sono acquistabili solo con una quantità allucinante di soldi, soldi che nessuno, editori e tipografi esclusi, può avere a disposizione; inoltre, anche se riuscisse miracolosamente a superare/risolvere questi problemi, si troverebbe di fronte a dei critici generalmente ignoranti che non saprebbero valutare e quindi non saprebbero diffondere/tramandare/selezionare le opere meritevoli di memoria; ma soprattutto, si troverebbe di fronte dei lettori semi-analfabeti, che vogliono leggere mentre mangiano, ruttano e bestemmiano e smollicano sulle pagine “dell’opera” (e non perché siano scemi, ma perché così sono abituati a leggere).
Questi limiti sono anche la ragione per cui, purtroppo, la maggior parte della gente che fa videogiochi è cresciuta coi videogiochi ed è interessata principalmente ai videogiochi, e pensa ai videogiochi per ¾ della giornata.
Ma perché ho scelto i fumetti, vi chiederete, se prima ho scritto che sono messi male quasi quanto i videogiochi? Perché, parafrasando le illuminanti parole di un mio insegnante, Matteo Casali, “cazzo, con un pacco di fogli, una gomma e una matita si fa Terminator 2“. Non è impossibile che in questo preciso momento ci sia un Kafka-del-fumetto chiuso nella sua stanza a Praga a scrivere e disegnare i suoi capolavori, che tra una decina d’anni, dopo che sarà morto, rivoluzioneranno il modo di narrare; è del tutto impossibile, invece, che la stessa cosa possa accadere coi videogiochi. Per tutta la gente che vuole confrontasi con Virginia Woolf, con Murakami, con David Wallace, per tutti quelli che vogliono confrontarsi con questi artisti e non con Suzuki, Naka o Mikami, per tutti quelli che, in pratica, hanno ambizioni artistiche elevate, scegliere i videogiochi, oggi, equivale ad annichilirsi.
Spero fortemente, per noi e per voi, ma soprattutto per il videogioco, il brutto anatroccolo più affascinante dell’ultimo mezzo secolo, che ci sia qualche matto così bravo, ambizioso e convinto che abbia o abbia avuto il coraggio di salire in sella. Ovunque e chiunque egli sia, auguriamogli di raggiungere lo stagno.
Bakke
Commenta questo articolo nell’Agorà.