Domenica 14 settembre, sono seduto alla scrivania davanti al monitor, la mia posizione segue coscientemente quella della sedia girevole, la sedia girevole è di tessuto rosso consumato ai margini più esterni dall’usura e dalle unghie dei miei tre gatti, che amano usarla come grattatoio, le mie braccia sono appoggiate ai braccioli in plastica nera e riesco quasi a percepire la sgradevole rugosità del materiale di scarsa qualità. La sedia è l’unico oggetto rosso della stanza che posso vedere da questa posizione, se escludiamo la punta rossa del pennarellone da bambini Giotto che vedo sporgere parzialmente dal portapenne in tela bianca di mia figlia. Sono seduto alla scrivania e la mia posizione è perfettamente ortogonale al monitor, farebbe la felicità del mio osteopata, come fa quella della mia spina dorsale, sento la leggera patina di sudore che separa la plastica del mouse dal palmo della mia mano, e con una frazione di coscienza registro per l’ennesima volta il fastidio che mi genera usare un mouse blu e grigio della logitech sul mio iMac bianco e alluminio, e contemporaneamente registro anche la meschinità del pensare qualcosa del genere proprio in questo momento.
Non ci sono altri oggetti rossi nella stanza ma osservando meglio posso percepire alla periferia del mio campo visivo, ancora concentrato sugli stessi quarantotto caratteri sulla pagina di Repubblica online che sto fissando da cinque minuti, il fastidioso lampeggiare di alcuni banner che -ovviamente- comprende anche del rosso: dovrebbe servire a catalizzare l’attenzione dell’utente e garantire un click. Ho imparato da tempo, come chiunque passi buona parte della sua giornata a navigare internet, a escludere dal mio campo visivo qualunque forma pubblicitaria e quindi con ancora un’altra frazione della mia coscienza registro anche il fastidio di registrare per la prima volta da tanto tempo un banner pubblicitario, proprio quando sono convinto che la mia attenzione sia -e dovrebbe essere- interamente catalizzata da quello che sto leggendo, no, che sto osservando -immobile- perfettamente e comodamente adagiato sulla mia sedia girevole rossa da cinque (adesso sei) minuti a questa parte.
Mi sento meschino anche perchè la prima cosa che riesco a ricordare di avere pensato è stata qualcosa del tipo “e adesso chi mi spiegherà cosa significa davvero Infinite Jest?” La seconda cosa che ricordo è che improvvisamente decido di lasciare la mia comoda posizione ortogonale e perfettamente adeguata all’osservare un monitor lcd per girarmi -con un conseguente schiocco della colonna vertebrale, che al mattino è ancora rigida, e penso che dovrò di nuovo fare una sessione di allungamenti se non voglio passarmi un’altra domenica con il dolore cervicale che mi impedisce di fare qualsiasi altra cosa che non sia stare orizzontale, al buio, a guardare il soffitto- e mentre le mie labbra si muovono per formulare la frase che sto per dire a Nadia, riesco finalmente a vedere il rosso degli armadietti della cucina e del piano di lavoro dove Nadia sta posizionando le tazze (rosse, perlomeno esternamente, dalla mia posizione non riesco a vedere quello che so essere l’interno smaltato bianco) per il the della nostra colazione.
- è morto Wallace
- cosa?
- …Wallace… è morto.
- non scherzare…
Si avvicina un po’ faticosamente, e d’improvviso, quando vedo e penso a Stefano, ancora adagiato nella sua pancia, che inizia a stare stretto e che per fortuna è già posizionato a testa in giù, e noi non vediamo l’ora che possa uscire fuori e stare più comodo e fare stare più comodi noi -soprattutto lei- e che finalmente potremo vederlo in faccia, sapere che faccia ha sembra incredibile, ed innamorarci finalmente di una persona e non di un’idea, è proprio in questo momento, mentre penso a cosa voglia dire essere innamorati di una persona e non di un’idea che mi viene da piangere. E lo so -e me ne frego- quanto sia sciocco, piangere per una persona che non si conosce neanche davvero, di cui si conosce solo l’opera, la cui opera si ama visceralmente. Me ne frego, e mi viene da piangere lo stesso e non importa.
E poi è da questo momento che le cose si fanno confuse. Sento Martina che chiede -chi è che è morto papi? ma non riesco a ricordare di avere risposto. Mi pare di sentire Nadia che dice -David Foster Wallace, è uno scrittore che io e papà amiamo molto, e credo di pensare che sia una risposta corretta, ma forse un po’ complessa da dare a una bambina di quattro anni. Non so cosa e se abbia risposto Martina, sono di nuovo concentrato sulla pagina di repubblica online, e su quei quarantotto caratteri che dicono “è morto David Foster Wallace l’autore di “Infinite Jest“, e penso che sono stato davvero uno stronzo a non andare a Capri due anni fa, quando era venuto a tenere una serie di conferenze assieme a Franzen, e penso -e contemporaneamente Nadia esterna lo stesso pensiero- che anche se avremmo sempre voluto farlo, non gli abbiamo mai scritto per fargli sapere quanto abbiamo apprezzato i suoi libri, e sì, soprattutto Infinite Jest, e quanto sia stato importante per noi, e come ci abbia fatto sentire bene e male, e allegri e tristi, e in qualche modo speciali, parte di una comunità di persone speciali che hanno amato, letto e riletto il suo libro, ed hanno saputo leggerci veramente quello che c’era scritto, al di là delle parole.
E poi penso che non leggerò mai un suo nuovo libro, e che Oblio sarà l’ultima opera di Wallace, e mi ricordo di avere letto che stava lavorando a un nuovo romanzo lungo ma all’intervistatore non aveva voluto dire nulla più che questo. E penso anche che l’ultimo racconto che avevo ri-letto di Oblio, parla proprio di suicidio. Ed è strano perchè -anche se non è chiaro da subito- parla di Wallace che legge sul giornale del suicidio di un suo compagno di college, e cerca -in un modo che io non saprei mai emulare, e non voglio neanche che sembri che ci stia provando- di capire che cosa poteva avere portato una persona che conosceva marginalmente ma che sembrava di successo, e ben integrata nei meccanismi della società, quegli stessi meccanismi che il Wallace del college invece trovava -come molti ragazzi, credo- alieni e difficili, e ostili, cosa poteva avere portato questa persona al suicidio?
Ecco.
C’è anche sempre qualcosa che ci fa arrabbiare -ed è ingiusto e uno lo sa, nel momento stesso in cui si arrabbia e si sente in qualche modo offeso dalla cosa- nel suicidio. Come fosse una sorta di offesa personale, come a dire allora non valiamo abbastanza?
E’ morto David Foster Wallace e a me, a due giorni di distanza, quando la mia vita ha ripreso il suo normale corso, sembra ancora incredibile. Che una persona che aveva così tanto da dire, così tanto da dare abbia deciso che non valevamo abbastanza. E anche se lo so che è ingiusto sono arrabbiato con lui, perchè era -oltre che uno scrittore eccezionale- una brava persona, e non meritava qualsiasi cosa l’abbia fatto soffrire così tanto da spingerlo al suicidio, e quindi non so più se sono arrabbiato con lui, o con qualsiasi cosa sia stata così orribilmente intollerabile da costringerlo a fare quello che ha fatto, e mi prende la paura che quella cosa possiamo essere noi, il mondo, le cose che leggiamo tutti i giorni e da cui abbiamo imparato a schermarci con le nostre cazzate quotidiane, e non solo a non sentircene coinvolti, ma non sentircene neanche parte integrante e in causa.
E allora addio David, e grazie.