Il fatto è che noi filosofanti non riusciamo più a provare amore per i videogiochi più o meno da quando abbiamo allargato i nostri orizzonti. Ci siamo interessati a nuove fonti di emozioni, abbiamo sviluppato nuove passioni, abbiamo preso coscienza di ciò che di bello c’è al mondo e lo abbiamo chiamato arte – anzi: Arte - e abbiamo iniziato immaginare come poter migliorare il videogioco. No, i videogiochi non sono arte (come le fotografie non lo sono, come i film[ati] non lo sono, come le tele imbrattate non lo sono: certe particolari fotografie, certi particolari film, certe particolari tele imbrattate lo sono), lo abbiamo capito da tempo.
Eppure, qualcosa in noi si mette in moto, un tumore con un’intelligenza propria che governa i nostri centri del pensiero e ci convince che l’unica redenzione possibile per un linguaggio non ancora maturo – e non lo è, questo è certo – è elevarlo, caricarlo di un valore intangibile, impalpabile. Molti la chiamano artisticità, altri “caratura artistica”, ma vengono coniati di continuo idiomi nuovi per perpetrare questo occultamento di buon senso. È da qui che nasce tutto: parliamo di un linguaggio che ha una connotazione popolare, con i limiti e i vantaggi del caso; non ha senso volere arte da un videogame. Come il confronto tra un album rock e uno di musica classica non ha motivo di esistere, allo stesso modo, nessun confronto tra una qualsiasi opera pop e una qualsiasi opera d’arte avrebbe senso. Perché tirare allora in un discorso sui videogiochi autori quali Sterne, Flaubert, Woolf, Kafka (al di là dell’insensatezza intrinseca di un confronto cross-media)? Portare i giochi nelle gallerie d’arte li migliorerebbe? Io sto dalla parte del “no”.
Perché il concetto di élite fa schifo.
I videogame non sono mai stati un prodotto d’élite, mai, niet; così come il rock non è mai stato un fenomeno nella testa e nelle orecchie di pochi illuminati ascoltatori (l’ascoltatore rock, passato e presente, è sempre stato quanto di più lontano dall’illuminazione possa esistere). Entrambi i fenomeni hanno subito un processo di diffusione, se vogliamo, assimilabile, e questo non significa che prima fossero oggetti di studio presso accademie di gran maestri. Anzi, è proprio attraverso la sua diffusione, che il rock ha avuto modo di evolversi, discostarsi sempre più dalle sue radici nere (anche se in diverse occasioni ha avuto modo di riavvicinarsi, ma ormai con una sua identità precisa), arrivando ad essere il fenomeno popolare che tutti noi conosciamo, nelle sue innumerevoli incarnazioni, diramazioni, declinazioni. Alla stessa maniera, i videogiochi sono stati sì prima oggetto d’attenzione di una schiera ristretta (relativamente) di fanatici, composta perlopiù da persone dalla vita sociale non… non proprio… beh, senza alcuna vita sociale, forse è più giusto dire così, dalla preparazione e dall’età più disparate, non proprio un gruppo identificabile con un’élite.
L’élite è brutta, puzza, è inutile, fa schifo. Che senso avrebbe lanciare un messaggio in un grande auditorio dove solo un ristretto gruppo di persone sarebbe in grado di recepirlo? Quale utilità avrebbe e quale sfida rappresenterebbe per l’autore, mi domando. E in base a quale criterio dovrebbe selezionarsi un campione di eruditi fruitori? Quale genere di preparazione dovrebbero avere alle proprie spalle? Insomma: élite di cosa? Parlando per assurdo, si verrebbe a creare un movimento serioso e dogmatico, dove Tecnici realizzerebbero videogiochi per Tecnici. Una dottrina dai connotati settari, quasi, una Tecnocrazia Videoludica. Un movimento che nascerebbe con gli intenti più reazionari di questo mondo, ma che morirebbe asfissiato dai suoi stessi dogmi, creati con l’intento di infrangerne degli altri, ma che finirebbero per costringere la creatività, il settore tutto, in una prigione buia e tetra. Un movimento che ricorderebbe molto da vicino le avanguardie del secolo passato. Dunque, qual è l’obiettivo ultimo dell’elitarismo, fare avantgarde con i videogiochi? Gioverebbe davvero a questo settore d’intrattenimento? Migliorerebbe sul serio la qualità dei prodotti?
Quale ragionamento astruso si cela dietro l’equazione “elitario=migliore”? Un’opera.pop è commerciale, deve piacere ad un pubblico possibilmente ampissimo, ma sarebbe sbagliato, anzi, scorretto reputarla inferiore. Non c’è inferiorità, non c’è superiorità, tra un’opera “avant” e una “pop”, i due mondi provano continuamente a sfiorarsi (e da questi “moti” nascono spesso capolavori di bellezza trascendentale), ma non c’è nessun motivo per cui l’uno dovrebbe tendere verso l’altro al fine di nobilitarsi. Sono paralleli. C’è tanto di bello nell’uno quanto nell’altro. Ergo, non esiste alcun motivo per cui un videogame, per mettere a segno uno step ulteriore verso il famigerato traguardo della maturità, debba protendersi verso l’ “Alto” e (cercare di) divenire Arte.
In realtà, sembra quasi come se chi perori con tanto ardore la causa élitarista lo faccia come se fosse mosso da un sentimento innocente, anche un po’ infantile, come un bambino che vuole tenere il giocattolo per sé e non accetta il pensiero che altri possano appassionarsi allo stesso oggetto. Sono questi, in realtà, gli élitaristi del videogaming? Degli inguaribili romantici, gelosi amanti che non vorrebbero mai vedere l’oggetto della propria passione sfiorato e sfiorito da altre mani. Quale assurdità.
No fun, my babe, no fun.
C’è chi solleva il videogame dall’obbligo di divertire [1]. Dover accontentare tutti, venire incontro alle esigenze di un pubblico (sempre più) ampio, limiterebbe il linguaggio nella ricerca di profondità di contenuti, gli impedirebbe di assumere un’identità definita, uno stile personale, riconoscibile. Il distinguo che l’autore fa tra intrattenimento e divertimento, e tra videogiochi e applicazione elettroniche interattive, del cui insieme i videogame sono solo un elemento, è corretto e doveroso. Ma già con tale distinzione esplica chiaramente di volere altro, di essersi disinteressato al linguaggio e di volersi “spostare” verso altri lidi. È legittimo, ma non coincide col voler migliorare il videogame: è un cambio di rotta. Non mi trova concorde, e non è nemmeno corretto prendere il cinema come termine di paragone, in questo caso. Sulla questione degli Universali, fior fior di cervelli hanno dibattuto per quasi un millennio e ancora la disputa non accenna ad estinguersi. Non è comunque alla disputa che dobbiamo prendere parte, per fortuna. Umberto Eco ne dà una spiegazione efficacissima nel suo “Il Nome della Rosa” (altro esempio di come un’opera pop non per forza debba essere di scarso valore o superficiale). Deve interessarci quanto detto da Adso da Melk, voce narrante e partner del protagonista, in chiusura del romanzo: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (la rosa primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi). Il videogioco ha il destino scritto già nel nome, laddove il cinema può godere di una libertà maggiore (banalizzando anche un po’) avendo una connotazione più neutra. Un gioco può essere costruttivo, estremamente regolamentato, semplice, complicato, pedagogico, ma ha senso soltanto quando reca divertimento, è questa l’essenza dell’Universale “videogioco”. Voler sradicare l’obbligo di divertimento significa voler fare qualcosa d’altro, muovendosi magari nello stesso medium, ma spostandosi su un linguaggio diverso. In sostanza: un gioco che non diverte è un brutto gioco, un gioco che non si pone l’obiettivo di divertire non è un gioco. Le possibilità potrebbero essere enormi, ma non è questo che mi interessa: a me piace giocare – certo, non più con il coinvolgimento di un tempo -, pensare come migliorare il videogaming, ipotizzarne le future evoluzioni, vedere un linguaggio aperto ad ogni forma di sperimentazione, scelta estetica, ludica, ma sempre con il divertimento del giocatore come obiettivo primario.
Il fatto è che ci siamo disinnamorati dei videogiochi, dicevo. Non siamo più gente da videogame, eppure ancora vi siamo legati. Per nostalgia, forse, per infantilismo, chissà. La realtà è che proprio queste conoscenze, queste esperienze vissute ci hanno portato fuori target. Non possediamo una vista più acuta, solo delle lenti che mettono a fuoco meglio certi particolari rispetto ad altri. Lo studio critico, l’analisi, l’approfondimento, la ricerca di chiavi di lettura, di significati, del “calibro artistico” (brrr), non è roba da pop.user.
È dunque terminata la nostra avventura nel mondo magico dei videogiochi? Certo che no! Ci siamo stufati dei videogames, ma diamine se possiamo rompere le scatole! Lo testimoniano gli articoli, le proposte, le nostre visioni futuribili, le critiche. La maturazione di un linguaggio passa anche dalla sua critica, quando è una critica buona.
Questo ci porta ad un altro spunto importante di discussione, che verrà approfondito nella seconda parte dell’articolo di prossima pubblicazione.
[1]: Qui.
Banalmente, non ho pensato di migliorare il videogioco, ma di utilizzare i medesimi supporti per qualcosa d’altro. Nessuno chiede a Justin Bieber caratura artistica, ma chi vuole ha sul medesimo media cose per il suo palato. Siccome il videogioco certe possibilità le ha lasciate intuire, ci si augura che questi spazi si possano creare anche nell’ambito elettronico: il videogioco non mi ha stufato del tutto, ma non mi basta più.
E, in quanto all’élite, non m’interessa farne parte o cercarla a tutti i costi, ma se ciò che cerco soddisfa i bisogni di pochi (perché di questo si parla) è inevitabile che sia elitario, volente o nolente. Il tuo mi sa tanto di twist antielitario da elitarista alla potenza.
Commenta con intolleranza questo articolo nell’Agorà.
Siccome ricicci gli articoli, ti riciccio il commento:
Ho apprezzato l’articolo, ma secondo me ci sono un paio di errori di fondo, che poi sono gli stessi che ritrov(iam)o in tutti un po’ gli scritti che affrontano l’argomento arte/videogiochi.
Il primo è pensare che l’arte sia in qualche modo elitaria: quella è una *definizione* di arte, data da pochi e per pochi, e che è talmente involuta e sbagliata in partenza da avere -sostanzialmente- ammazzato l’arte nell’ultimo secolo.
Il secondo è quello di cercare di tracciare un parallelo fra il videogioco e -boh- qualsiasi altra cosa, sia letteratura, cinema, musica o quant’altro. Tutte le forme di comunicazione nascono con l’intento e l’esigenza di -tautologicamente- comunicare qualcosa. Ed è la qualità del comunicato (o talvolta del comunicante) a distinguere la porcheria dal mediocre e -sì- dall’arte.
Il videogioco non necessita di comunicare un bel niente, anzi: paradossalmente i videogiochi migliori sono proprio quelli che si astraggono completamente dall’esigenza comunicativa, talvolta addirittura astraendosene in senso letterale come tetris, non a caso esempio perfetto del videogioco universale.
Non può essere un twist da elitarista alla potenza. Ecco perché: un’élite è una selezione di soggetti che si pongono “al di sopra” di altri. L’errore sta proprio nel pensare che, siccome piace a “pochi”, il prodotto sia elitario. Quando si introduce questo concetto, si suppone che una tale élite venga selezionata in base a determinati criteri, non so, grado di preparazione, capacità particolari (innate o acquisite), ecc. Non credo si debbano possedere qualità particolari per usufruire di un prodotto quale è il videogioco, né credo che la sua maturazione passi da questo. Già dicendo che non pensi a migliorare il videogioco, ma a fare “altro”, torni al mio discorso (ma mica ti biasimo, eh). Io pure credo di essere “finito fuori” dal target cui si rivolge il videogame (questo non fa di me un membro di un’élite, di cosa poi?) ma è sul videogioco che mi piace soffermarmi e pensare come potrà cambiare in futuro.