#01 Videogame for dummies: senza topa non nasce il videogioco - { A Serious Man }
Dr. Klaude, Venerdì 27 Agosto 2010 @ 11:03

L’ultima volta avevo lasciato in sospeso qualche domanda; ok, è passato un po’ di tempo ed è lecito non ve ne ricordiate. Di certo non starò a ripeterle, disponete di un internet, dunque sono lì a due click di distanza. Una di queste però costituisce il cardine del racconto che segue, nient’altro che la storia della nascita del videogioco. No, non è vero, per quella se vi interessa posso al massimo consigliarvi un libro . Il racconto è invece quello degli albori dell’industria del videogioco statunitense. In fondo non ci si allontana molto dalla storia del videogioco, ma una delle domande che è lecito porsi in questa ottica è questa: come ha influito la castità delle ragazze mormoni sull’industria del videogioco americana? (Indizio: Nolan Bushnell chi?)

Space War, l’equivalente di Lucy per il videogioco, vide la luce nel 1962 al MIT, Massachussets Institute of Technology. Il Massachusetts non è un posto poi così schifoso per vivere: non è lontano da New York, ospita i gloriosi Celtics, è stato ambientazione di quasi cent’anni di maledizione del bambino per i Red Sox, è immerso nel verde, si affaccia sul mare e, soprattutto, gode di quell’apertura mentale che caratterizza l’americano della costa est. Se ciò non fosse abbastanza, il MIT al tempo era sicuramente l’istituto più all’avanguardia per lo studio delle tecnologie. Non è poi così sorprendente che il primo cucciolo di videogioco abbia scelto quel luogo per venire al mondo, in questo paradiso per nerd ante-litteram.
Immaginate ora invece di avere una ventina d’anni e frequentare la University of Utah, nel pieno dell’America retrograda, dove il 60% della popolazione è mormone e quindi non molto incline a lasciare che la propria figlia si rotoli sul sedile posteriore di un pulmino Wolksvagen dopo un paio di birre, l’unica occasione di svago è una partita degli Utah Jazz e un canyon le cui creste, secondo la leggenda, sono anime dei dannati e che rappresenta la principale attrazione locale. Prospettiva non esaltante, soprattutto nel caso abbiate intenzione di dedicarvi a una sana vita da nerd di successo.
E il successo è anche questione di luoghi.

Nolan Bushnell aveva subito intravisto del potenziale commerciale in Space War, che da simpatico esperimento era diventato rapidamente cult e passatempo dei laboratori universitari del paese. Nonostante tutto, la University of Utah era un buon posto dove studiare (al tempo uno dei quattro luoghi al mondo dove era possibile collegare un computer a una linea telefonica), ma a Bushnell e alla sua idea di business la UoU e la mentalità del cuore degli USA stavano strette, così dopo aver abbandonato il mormonismo, accumulato un piccolo gruzzolo con ruoli marginali nell’industria dell’intrattenimento elettronico e non, con in testa l’idea di fondare una propria compagnia non restava che una decisione da prendere: abbandonare lo Utah.

Atari nasce nel 1972 a Santa Clara, pochi Km a sud di San Josè, in piena Silicon Valley. Sono gli anni in cui il mondo delle tecnologie sorge: la definizione di Silicon Valley è stata coniata solo nell’anno precedente. Il mercato dei calcolatori e dei semiconduttori è agli albori, ma in quella regione l’aria che si respira sa di entusiasmo. Nel giro di un anno si sono infatti concentrate un numero indefinibile di start-up, in buona parte nate con pochi spiccioli (il capitale iniziale di Atari era composto da 750 $, ovvero 250 $ per ciascuno dei tre soci) per mano di giovani che probabilmente non avevano mai visto una tetta in tutto il college, ma che presto avrebbero potuto permettersi riunioni in piscine riempite di spogliarelliste.

Il terreno su cui le nuove piccole imprese andavano a installarsi era già ben nutrito dalla presenza di colossi la cui fama affondava le radici ben più indietro nel tempo. La Hewlett-Packard era stata la prima azienda tecnologica a stabilirsi a sud della baia da San Francisco nel 1939, ma intorno ad essa gravitavano altre imprese con cui divideva affinità (Warner Communication), ed altre se ne affiancarono presto (Midway e Bally nel campo dei giochi elettronici da sala; Mattel e Parker Brothers nella produzione di giocattoli; Coleco, allora solo un produttore di piscine; Magnavox, Fairchild e General Instrument, le prime a seguire la linea tracciata da HP e imprimere il marchio futuristico alla Valley). La ricchezza di competenze, conoscenze ed entusiasmo che arricchiva l’humus della Silicon Valley si rivelò quindi determinante nella formazione del settore del videogioco statunitense e dei suoi processi produttivi.

Per la creazione del reparto di sviluppo del Video Computer System ad Atari fu sufficiente pubblicare un’inserzione su un giornale locale. Il concetto di fondo è che quella fetta di pianeta era così densamente popolata da nerd, geek e geni visionari che con quattro righe sul giornaletto di provincia è stato assemblato il team che in breve avrebbe realizzato la pietra su cui l’intera industria dell’intrattenimento elettronico domestico ha posto le fondamenta nei 40 anni successivi. Diverse teorie di geografia economica sostengono che nel delicato momento di formazione di un’industria un ruolo fondamentale viene ricoperto da agglomerati e industrial cluster, ovvero concentrazioni di imprese di uno stesso settore che collaborano nel plasmare il mercato del lavoro specializzato nell’area in sui si sviluppano e contribuiscono all’affermazione di una proficua divisione sociale del lavoro. La vicinanza insomma di un gran numero di industrie specializzate in un determinato settore non solo ha effetti sul territorio geografico in cui queste si insediano, ma anche sulla popolazione che vive l’area insediata. La diffusione di community of practice, gruppi di lavoratori impiegati nelle medesime mansioni, seppure in società differenti, accomunati da obblighi e rituali legati alla professione, unisce le carriere e le vite. I legami sociali che nascono tra vicini di casa spesso si mischiano a quelli professionali, e ai legami tra individui si aggiungono quelli tra imprese: considerando la facilità e la frequenza con cui si poteva cambiare occupazione negli Stati Uniti di quel periodo non appare strano che figure determinanti nello sviluppo di Atari abbiano in precedenza influito sulle sorti di Apple prima e di Activision poi. La vicinanza geografica e la condivisione dei medesimi strumenti di lavoro favoriscono il passaggio di conoscenze, la circolazione di idee, la nascita di nuovi progetti commerciali. A dirla tutta, non ci vorrebbe una branca dell’economia per capire il concetto: è facile immaginare che si uscirà più arricchiti da una chiacchierata e una birra in un pub a San Josè con Al Alcorn, Alan Miller o John Romero piuttosto che da una pizza con Mengacci, Scotti e Mastrota a Cologno Monzese.

Atari non si limitò però a nutrirsi delle possibilità offerte dal ribollire di idee della Valley, appena possibile infatti iniziò essa stessa a contribuire al processo di diffusione di conoscenze e competenze. Dissidi interni in seguito all’acquisizione da parte della Warner causarono una fuoriuscita di talenti che si rivelarono un serbatoio abbastanza ampio da abbeverare buona parte dell’industria americana del videogioco tra la fine dei ‘70 e il decennio orribile degli ‘80. Si deve infatti a un gruppo di ribelli Atari la nascita della prima società di sviluppo software per console third party, Activision (da cui sarebbero in seguito nate Accolate, Acclaim, Accolade), così come sempre un ex-dipendente Atari è stato il fondatore della gloriosa Amiga. Il contributo reso da Atari alla Silicon Valley non si ferma però qui, ex ataristi si ritrovano in posizioni di rilievo in Electronic Arts, Lucasart, Lucas Film, Microsoft e non ultima Apple. Steve Jobs a sua volta era stato dipendente Atari, e dalle fila della sua Apple iniziò la propria avventura personale Trip Hawkins, fondatore di Eletronic Arts (da cui sarebbero poi usciti i fondatori di Westwood e Sierra OnLine, a loro volta fucine di talenti; sì, vero, anche dalle trasmissioni di Scotti deve essere uscita qualche ministra o senatrice).

Il concetto chiave nel processo che ha portato alla nascita dell’industria è quello di coerenza culturale, ovvero un nucleo di valori diffuso e condiviso per l’intera Valley tra chi contribuiva alla nascita di una informatica di massa e chi sognava di portare i videogiochi dalle fumose sale da biliardo agli ordinati salotti della classe media americana. Per i laureati nelle facoltà tecniche il sud California era il sogno da inseguire, esattamente come lo era per qualunque altro giovane americano che volesse provare l’ebbrezza della libertà, perdere i vestiti, godere del sesso di una ragazza diversa ogni volta che lo volesse e visitare nuove realtà a bordo di un’astronave di acido lisergico. A queste nobili aspirazioni però un laureato del MIT poteva aggiungere la possibilità di fare parte di una nascente industria che vedeva la creatività come una risorsa da stimolare e non come un primo indizio di comunismo represso. Per programmatori e ingegneri l’industria del videogioco consentiva di lavorare per un qualcuno che entrava in ufficio in bermuda e camicia a maniche corte, beveva e mangiava mentre lavorava e con ogni probabilità non arrivava ai 30 anni. E per coloro dotati anche di una morale significava essere certi che la fatica del proprio ingegno non sarebbe stata utilizzata per sganciare un nuovo letale ordigno sulla popolazione inerme di un paese che mai nessuno gli aveva insegnato a localizzare su un mappamondo. Usando le parole di Bushnell:

«We provided a place for creative people to be part of something completely new. These were people who wanted to create something intellectually stimulating and fun. They wanted to put their talent into making games, not bombs» (Sheff, 1993)

Questa coerenza culturale ha esercitato i suoi effetti, sia per motivi geografici che per motivi cronologici, principalmente a livello tecnologico, mentre i suoi influssi non hanno toccato se non marginalmente quello contenutistico. Le due industrie culturali che a livello mondiale hanno maggiormente contagiato il mondo del videogioco (fumetto e animazione) non hanno saputo svolgere in USA il ruolo che, si vedrà, avrebbero a breve ricoperto in Giappone; mentre Hollywood e la sua smania di successo hanno contribuito nel ruolo di complici al tragico crollo di fine ‘80.

L’importanza culturale rivestita dai balloon nei primi anni nel secolo, in grado di contribuire alla diffusione della stampa quotidiana in tutto il paese, era ormai scemata e adombrata dal fenomeno televisivo quando il videogioco si affacciò timidamente nei salotti usa. Ciò non significa che i comic vivessero un periodo nero, anzi, l’industria poteva godere ancora, ad esempio, del genio creativo di talenti del calibro di Jack “The King” Kirby, tuttavia la situazione non era delle più rosee. Marvel e DC erano strette in una nicchia, lontane dalla diffusione garantita dalle strisce sulle ultime pagine dei quotidiani, che superava barriere di sesso, età e censo, e i tempi da fenomeno pop e commerciale che ipertrofismo nei disegni e la febbre da collezionismo da variant cover avrebbero collaborato a creare nei ‘90 erano ancora lontani. Quelle di comic e videogame erano insomma due industrie piuttosto lontane come stato di salute, e ancora più lontane geograficamente. Gli uffici Marvel sono storicamente situati a New York, non lontano dal luogo in cui si trovavano fino al 1930 gli studi di animazione Disney, prima del trasferimento in California.

Nonostante i genitori di Topolino non si trovassero dunque troppo lontano dalla Valley, nemmeno l’industria dell’animazione finì per entrare in contatto con quella del videogioco, e in questo caso le distanze furono soprattutto culturali: professionisti affermati nella nobile arte dei disegni animati non avrebbero certo abbandonato un business baciato da un’alta considerazione di critica e pubblico per sporcarsi le mani con prodotti usciti da start-up di capelloni e drogati, sul cui futuro ben pochi erano pronti a scommettere. Il solo disposto a farlo, con sommo stupore dell’epoca, fu quel mattacchione di Don Bluth, regalando un gioco dalla cura grafica impensabile per l’epoca, ma così poco assimilabile al concetto di interattività da dover essere inquadrato in una sua propria categoria. Il pubblico di allora, ammaliato da un cartoon in stile Disney dove ogni tanto si poteva premere un tasto per continuare la visione gratis, non si fece grossi problemi, magari perché quel cavaliere sbilenco non li tediava con pipponi filosofico-politici.

Infine, giunse Hollywood. E il risultato fu disastroso. Probabilmente la tecnologia era troppo acerba, impossibile creare allora qualcosa che richiamasse agli occhi quel che si era visto sullo schermo. Ancora più probabilmente ad Hollywood nessuno aveva capito nulla della nascente industria dei loro fratellini spirituali, l’importante era infilare brand in più posti possibili (fremito, quello di infilare cose in più posti possibili, che da sempre caratterizza la ridente cittadina degli studios). D’altra parte qualcuno si era convinto che ET in copertina fosse sufficiente a convincere all’acquisto file di allocchi. Ben presto la mancanza di talenti creativi assorbiti da altre industrie rese intollerabile agli occhi dei consumatori la pochezza contenutistica dei titoli sugli scaffali. Nel 1983, mentre il settore occidentale dei videogiochi conosceva il suo primo rovinoso crollo, in Giappone stormi di mangaka e animatori migravano verso Nintendo e le altre stelle nascenti del mercato videoludico del Sol Levante, dando vita al florido decennio di supremazia giapponese, fondato sul predominio nella creatività rispetto alla tecnologia.

BIBLIOGRAFIA

Kent S, 2001 The Ultimate History of Video Games (Prima Lifestyles, Roseville, CA)

Sheff d, 1993 Game Over (Random House, New York)

Izushi H and Aoyama Y 2006 Industry evolution and cross-sectoral skill transfers: a comparative analysis of the video game industry in Japan, the United States, and the United Kingdom. Environment and Planning A 38(10): 1843-1861


1 commento a “#01 Videogame for dummies: senza topa non nasce il videogioco”

Lascia un commento

Devi accedere come redattore per lasciare un commento.