The Dig - { Curia, Riesami }
JackNapier, Mercoledì 9 Marzo 2011 @ 11:30

“Houston, abbiamo un MacGuffin”. Attila è un corpo celeste che ha deciso di spiaggiarsi sulla Terra. Urge convincerlo a rituffarsi nell’universo, con l’aiuto di due testate nucleari. La NASA elabora un piano di massima emergenza e forma un team speciale per l’occasione: il comandante Boston Low, militare esperto di sopravvivenza in situazioni critiche, responsabile della sicurezza della squadra; il Dr. Ludger Brink, geologo e archeologo, già leader della prima spedizione scientifica sulla superficie venusiana; Maggie Robbins, reporter di fama mondiale, linguista esperta, sostenitrice agguerrita della libera informazione.

Questo il preambolo del parto più travagliato di LucasArts. Ritardi, tagli e modifiche alla sceneggiatura, passaggi di testimone e licenziamenti hanno contribuito alla nascita di un prodotto dall’aspetto obsoleto e dal contenuto imperfetto. Obsoleto per l’epoca, chiaro. Per noi del futuro (ahem, presente) cambia poco: il tempo appiattisce le differenze tra vecchio e nuovo, facendoci apparire le cose come vecchie e meno vecchie. Anzi, in pieno revival pixelloso, l’obsolescenza quadrettata diventa addirittura un fregio. Imperfetto, per un plot incongruente, per alcune soluzioni di trama naif, per il suo incedere cinematografico talvolta eccessivo e per una caratterizzazione dei personaggi che, confrontata alla profondità e alle potenzialità della trama, risulta abbozzata appena. Tra i suoi spigoli vivi non smussati, tuttavia, si celano motivi per cui vale tutt’oggi la pena tirarlo fuori dalla mensola impolverata.
The Dig è uno strappo con la tradizione degli adventure Lucas sotto molteplici punti di vista. Il primo quadro, dove si assume il controllo del capitano Low, è una prospettiva meravigliosa, fredda e realistica del cosmo. Un inizio senza il botto, elegante, minimalista.
I primi movimenti e scambi di battute con i compagni di team ci immergono in un’atmosfera diversa da quella che ci si aspetterebbe dal cranio che sta dietro a Sam & Max Hit the Road. È un adventure maturo, in ogni sua componente. Non c’è traccia di surrealismo, di nessun paradosso comico, né una goccia di demenzialità volontaria. Per la prima volta si parla della morte nella sua drammaticità, della paura della stessa, del potere e della dipendenza ineluttabile.
Ipertestualità e omaggi a cinema e letteratura di fantascienza, finanche una certa dose di visionarietà tecnologica: quando Boston Low estrae dall’inventario (quello che sembrerebbe) un telefono satellitare e, sorpresa, è un iPhone, nel 1995, che però si chiama PenUltimate. L’attracco e l’ingresso nel meteorite ha tutto il senso di meraviglia del miglior Spielberg. Il contatto col misterioso, l’ingresso in una dimensione di sospensione incredula, l’ignoto seducente e spaventoso. L’approdo in un mondo inconosciuto e il meglio di quanto The Dig abbia da offrire che si svela, un indizio alla volta, ai protagonisti all’ingresso nel nucleo del pianeta (e del gioco stesso), come se fossero i tre principi della fiaba di Serendippo. Scenari statici, spazi enormi, vuoti, senza vita, silenzio; bastioni levigati, ornati di bassorilievi stilizzati; cavità antiche come le stelle, cunicoli senza fine in abissi che celano creature dalla forma terrificante, eppure spaventosamente familiare; congegni astrusi, pannelli di controllo, comandi iridescenti basati su una logica estranea all’esperienza umana. Un’estetica dalla carica immaginifica senza precedenti, dove, se proprio bisogna trovare un difetto, lo si potrebbe imputare alla dissonanza che si crea alla comparsa degli intermezzi cartooneschi, non poco stridenti con lo stile grafico in-game. Menzione doverosa per l’accompagnamento di un Michael Land forse ai vertici dei suoi contributi sonori. Il Brian Eno di “Apollo: Atmospheres and Soundtracks”, gli esordi discografici di Terry Riley, fino alle opere di Wagner, sono state le ispirazioni principali per l’ideatore del sistema iMuse.
Sarebbe dovuto essere un film, ma non se ne fece nulla, quindi un gioco: un RPG noioso, un survival-nonsoché-splatteroso. Troppo faticoso: perché stravolgere un’impostazione dal successo assicurato qual era quella basata sullo SCUMM? E infatti non si stravolse niente, se non l’idea originale di gameplay. The Dig sarebbe diventato un punta e clicca, per meccaniche simili a Sam & Max, per bilanciamento affine a Day of the Tentacle. Una difficoltà nella media, insomma, con le soluzioni dei rompicapo coerenti al contesto. Spirito d’osservazione, immaginazione e pazienza, solo questo serve. Scomparsa la griglia di imperativi, ci ritroviamo con un puntatore intelligente, che esegue l’azione predefinita per l’oggetto selezionato. Motori arcaici dalle funzioni da decifrare, pulsantiere e algoritmi extraterrestri da studiare, decorazioni e strutture dai significati reconditi, sono segni evidenti dell’ascendente enorme esercitato da Cyan in quegli anni. The Dig rappresenta il contatto ufficiale tra le due botteghe dell’adventure più famose. Convivono nello stesso corpo la sensazione di isolamento e “reclusione” in una gabbia meravigliosa, con l’intelletto come chiave unica per evadere, e lo stile punta e clicca classico - seppure semplificato - di LucasArts, l’empatia crescente verso un eroe contro mille avversità, la diegesi che si srotola ad ogni arcano risolto.
Sarebbe potuto essere molte cose, probabilmente migliori. Sarebbe potuto essere nulla, per quante volte è stato vicino alla cancellazione. Cos’è The Dig? Un unicum sotto molti punti di vista. Un pastrocchio, un pomo della discordia, un compromesso, ma, sopra ogni cosa, un viaggio bellissimo ai confini del cosmo e della fantasia.


1 commento a “The Dig”

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