Esistono legioni di videogiocatori che non riescono a dimenticare anni colmi di picchiaduro a scorrimento.
Essi vagano senza meta come zombie affamati e assetati di sangue, spulciano release list con la consapevolezza di essere ignorati. Sarebbe giusto dire loro che i cosiddetti sparacartoni non sono scomparsi, semplicemente sono diventati i vari Ninja Gaiden, Devil May Cry e Onimusha, ma sarebbe come dare una mela ad un leone.
Ma nell’anno del signore 2006 una luce squarciò il cielo, non una cometa ma la mano di Gene, la “mano di Dio“.
God Hand è carne, programmato per passione, consapevolmente e volutamente fuori mercato, dal sapore talmente nostalgico da diventare avanguardia.
Nessuna sequenza iniziale, cut scene giusto per togliersi di torno il supervisore marketing e realizzazione tecnica al limite della programmazione amatoriale. E se nell’action game moderno si esalta qualsivoglia orpello grafico in nome della terza dimensione, in God Hand c’è un citazionismo quasi esasperato: il punk, il teppista, il ciccione, la puttana con le calze a rete, fiotte di boss di fine livello, armi da raccogliere e lanciare, casse da rompere nell’estenuante ricerca del power-up, ovviamente sotto forma di mela/fragola/banana.
Il tutto concepito per un’unica ragione, riempire e ridefinire lo spazio ludico per esaltare il giocatore e sottolinearne la sua centralità. Proprio come avveniva nei vecchi coin-op.
Il level design è inoltre spartano, un susseguirsi di corridoi e stanze perfettamente rettangolari relegati in un contesto del tutto sconosciuto alla logica (in realtà anche qui il richiamo alle atmosfere dei vecchi Final Fight e Double Dragon è evidente), e senza il il benché minimo ornamento grafico.
Ovviamente contenitori per qualcos’altro.
Una volta accettato ciò che si para davanti, God Hand stupisce con uno dei più articolati e completi sistemi di combattimento che l’industria dei videogiochi abbia mai concepito.
Un combat system in tutto e per tutto programmabile. Pugno, calcio, calcio volante. Ogni momento preso singolarmente è riconducibile ad un qualsiasi altro gioco, ma la sequenza di questi colpi può essere decisa dal giocatore, programmando le combo attraverso un numero di slot e mosse il cui numero aumenta progredendo nel gioco. Ed ecco che la semplice sequenza di tre colpi di cui sopra si trasforma in un turbinio ludico senza eguali, in cui ogni colpo deve essere assestato per un motivo preciso, ogni nemico affrontato in maniera differente, con una personalizzazione infinita.
Tre tasti di puro godimento.
Ma non meno importanza ha lo stick destro al quale è stato relegato un sistema di movimenti e schivate a dir poco perfetto, ed aggiungiamoci pure una sfilza di final e prese spettacolari.
Bene, una volta apprese le meccaniche un ghigno solca il viso del giocatore, il tutto esaltato dall’inumana difficoltà. Infatti si muore, e tanto, ma riprovarci diventa un imperativo, è il gioco stesso che te lo impone, assorbendoti in un meccanismo a spirale dove l’unica via di uscita è l’imposizione di sé stessi sulle meccaniche di gioco. Pratica ed approfondimento, dedizione che diventa assuefazione, e quando l’ultimo nemico è a terra la vittoria diventa catarsi.
Ma Giocare a God hand ora è come andare ad una festa a numero chiuso: Clover controlla il documento e se sei nato dopo il 1985, tipo il recensore di IGN, resti inevitabilmente fuori.
Scelta dovuta non per razzismo o snobismo (beh, snobismo forse un po sì) ma per una presa di coscienza, celebrazione di quelle atmosfere, sensazioni che non torneranno più, il cui ricordo è prerogativa di quei trentenni, come me, delusi dalla realtà odierna.
Sì, God Hand sembra uscito dalla macchina del tempo, portatore sano di ludismo puro anni ‘80, gli anni in cui la mia generazione imparò ad amare i videogiochi, gli anni in cui si passavano giornate intere incollati ai cabinati nei bar, gli anni in cui la bilancia che pesava forma e sostanza pendeva incondizionatamente a favore della seconda.
* Gli avrei dato 10 se non m’avesse fatto cosi male.
jazz2
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