Un nome su tutti: Stephen Cakebread, che fra l’altro sembra il sosia di Quentin Tarantino, è stato il primo a sparare la bomba. Lo stesso Greg Canessa, capoccia di Xbox Live Arcade, lo definì il proprio Halo, KA per antonomasia. Come dargli torto: Semplice, psichedelico, geniale (con la sua mitraglietta omnidirezionale), dal sapore antico e moderno, e pure stiloso, con quel sottofondo in loop techno che cresce di pari passo alla difficoltà, per poi terminare in un climax caleidoscopico da retina sfasciata. Semplicemente geniale, Geometry Wars, ha fatto scuola.
L’utilizzo del doppio stick analogico è la base di un discreto numero di post-produzioni più o meno meritevoli: dai due Assault Heroes a Mutant Storm Empire, passando per il meraviglioso Omega Five (Hudson sugli scudi). Sono quei giochi che lasciano il segno, dove l’ansia da prestazione ti logora, divorandoti dall’interno: “ma come quello spastico di ****** ha fatto più del doppio di me?”. E’ inutile spergiurare che tizio, caio o straccio che siano ci passino il doppio di tempo, oppure siano entrati nel meccanismo gestionale del moltiplicatore prima di te; è inutile, l’autostima ne risente. I nemici aumentano, così come la loro cattiveria: i 12 bad guys, come gli ha definiti lo stesso Stephen, volteggiano, si allontanano, ti cercano, in un crescendo di follia colorata e resie di ogni sorta. Alla fine quel rettangolino infernale non lascia scampo, se non l’azionare una bombetta libera tutti (che son limitate come le bestemmie alla centesima partita). Il seguito di geometry non ho ancora avuto il piacere di testarlo a fondo (anzi solo la demo), ma pare sia un piccolo capolavoro, come e forse più del prequel. Non avevamo dubbi a tal proprosito.
Passiamo ai giappomongoli, così additati per la chiara incompetenza dimostrata in ambito next-gen (salvo uscirsene con rari exploit), ma al contrario delle vere e proprie bombe in ambito XBLA. Si vede che conservano lo spirito del gaming arcade, quello puramente anni ‘80. I loro remake dei classici da sala e le new entry del panorama arcade sono semplicemente sublimi: date un occhiata alle release di Namco/Bandai e Hudson, con i loro Galaga Legions, Pac Man championship edition ed Omega Five. Anche loro hanno contribuito all’accoppiata: “genialità e XBLA”. Prendiamo l’innovazione alla base del rivisto cult-game Galaga, dove lo stick analogico destro (sempre lui) è stato adibito all’utilizzo dei due satelliti sparacchini. Galaga Legions abbandona la staticità orizzontale della navicella nella parte bassa dell’area di gioco (caratteristica dello storico prequel), per permettere ai due satellitini di essere posizionati in qualsiasi zona dello schermo ed, a seconda delle esigenze, nelle canoniche quattro direzioni. Questi, inoltre, possono essere richiamati in qualsiasi momento tramite la pressione del piccolo dorsale RB. Genialità allo stato puro, coadiuvata dal fatto che la traiettoria di ogni attacco (variegati e complessi sempre più) delle orde nemiche venga tracciata, di volta in volta, prima della loro comparsa on screen. Che so, metti i satelliti parandoti il culo da un doppio attacco sui fianchi e nel frattempo centri il fuoco della navicella principale (questo ovviamente sempre frontale) sul mostrillo più tosto, in modo da far fuori intere orde abbattendone il fulcro vitale. Considerate il fatto che ogni gruppo di nemici si porta dietro un focus, a loro letale, dove concentrare il fuoco per farne mambassa. Moltiplicate questi attacchi per cento/mille, sempre diversi, ed avrete una vaga idea delle reali potenzialità del titolo Namco/Bandai. Ecco, questo è un esempio da niente a fronte di un gameplay divino, sudereccio, che trasmette ansia da record, anche grazie al comparto sonoro scalpitante in puro stile XBLA. Una droga. Il bug di queste produzioni, stile Geometry Wars, risiede solo nel fatto che una volta esaurita la grinta da classifica, inevitabilmente, perdono di significato. Lo so, è una cosa tipica di questo genere di giochi, ma nel caso specifico del live, dalla community così legata, secca e pulita, il tutto è più repentino che manco te ne rendi conto. Cioè, si, quando il primo s’invola e hai finito il gioco cento e più volte senza possibilità oggettive di migliorarti… Alzi bandiera bianca, in tutti i sensi.
Al Tokyo Game Show 2007, uno sconosciuto team, tale Team Number None Inc., presenta ufficialmente, per bocca del capoccia Jonathan Blow, un progetto indipendente (come suona bene questa parola): Braid, giunto senza clamori alla sua data di uscita. Anzi, forse l’unico clamore suscitato è stato lo sdegno di qualche scellerato per il presunto costo eccessivo di 1200 MP. Na’ caccola, considerato il prodotto finale. Scenari stile acquarello, dettagliati e stilosi quanto basta, ironici riferimenti alla baffuta mascotte nintendo, accompagnamento musicale che “accompagna” in tutti i sensi, ed un level design, che definire divino è poco: tutto questo e molto altro è Braid, un piccolo/grande capolavoro. La base del gameplay è il controllo del tempo, che in un batter di ciglia trasforma Blinx e Prince of Persia in una barzelletta. Non sto a spiegarvi cosa dovrete o non dovrete fare, la storia intendo, e le situazioni che si verranno a creare, ma, vi dico solo una parola: level design. Così avrebbero dovuto chiamarlo. Oltre a maneggiare il tempo a piacimento, avanti e indietro a diverse velocità, compiendo autentiche ed appagantissime magie, più avanti scoprirete le ombre: doppioni creati dal giocatore sulla base dei propri movimenti. Dio mio, non esiste un solo quadro che si risolva al solito modo, non esiste, tranne le fasi iniziali, un quadro dove non parta l’esclamazione: “No via, ora è davvero finita”. E un’ultima cosa, per favore, non chiamatelo platform, ma nemmeno puzzle game (anche se questa nomenclatura gli si addice di più), non chiamatelo proprio… Scaricatelo, è il Portal del Live Arcade. Un solo difetto: longevità -6/7 ore circa-. Poveretti, già si saranno fatti un culo immane per essere così creativi, via, lasciamo perdere.