Va detto subito, per togliersi un peso: The Expendables è una merda. Sì, da un punto di vista cinematografico non si può salvare nulla, e non è un’esagerazione, è davvero terribile a vedersi. È brutto, a tratti oscenamente brutto, è un capolavoro indiscutibile. The Expendables è un film porno, a nessuno interessano le scene tra una botta e l’altra, e difatti sono scritte male, recitate peggio e dirette alla cazzo di cane, sono un preludio. Le botte e i botti abbondano, arrivano con le scuse più improbabili, e in ogni caso una motivazione plausibile sarebbe sprecata quando una montaggio da aritmia non ti fa capire nulla di quello che succede sullo schermo. Ripeto, un capolavoro.
Va ammesso però, il film ha i suoi difetti. Non il girato, certo, quello è perfetto, nessuno avrebbe voluto nulla di diverso, e per chi sta pensando “Bèh, però…” in sala c’è Eat. Pray. Love, grazie e arrivederci. Il problema grosso a dirla tutta è uno, e per quanto paia paradossale dirlo, è rappresentato dal cast. Vero, Statham pare l’unico attore lì in mezzo (e credo non esista altra pellicola in cui ciò possa accdere), Jet Li fa la parte di Calimero, Lundgren è un figo, ma è solamente il comprimario di un grosso fucile, Willis e Schwarzcoso passavano di là, il nero non lo conosce nessuno e infine Couture e Austin picchiano come fabbri e… sì, già, picchiano come fabbri. Il vero problema, in ogni caso, non è da ricercarsi tra loro. Pochi hanno il coraggio di ammetterlo, ma questa non è la formazione del Brasile del ‘70, è un Milan vecchie glorie: applaudi commosso davanti alla tv al plasma Marco che è bello come sempre, ma solo un Galliani si esalta davvero ed esulta come se fosse una finale. Mancano due o tre pezzi davvero pregiati. Seagal, innegabile, e Trejo; ok, avevano da fare con Rodriguez, giustificazione accettate, ma ci si vede per il secondo capitolo. E poi Van Damme; la versione ufficiale parla di dissidi sul copione, ma lo sappiamo tutti che ora fa lo spocchioso autoriale e perderebbe a braccio di ferro anche con Jet Li. E ancora Snipes, Russell; un Mickey Rourke che non si fa la doccia dall’ultimo ciak di The Wrestler non compensa, mi spiace.
Qualunque altra cosa che critici o simili abbiano cercato di far passare per un difetto in realtà è un pregio. Tutta questa bella gente non ha nessuna caratterizzazione, secondo loro. Non è vero, ci sono i buoni e i cattivi. La scelta stilistica è chiara, un’adesione dichiarata agli stilemi formali degli action ‘80, con aggiunte di puro fan service à la Snakes on a Plane: ci si può fingere sdegnati, ma è esattamente tutto ciò che il pubblico desidera. Non si dica che Stallone ha copiato e basta però, ha ereditato la dicotomia buoni/cattivi e ci ha messo del suo, un paio di buoni spiritosi, il buono ingovernabile e il buono che sembra vagamente saper recitare. Sui cattivi ha deciso di rimanere più aderente al canone, c’è il cattivo che pensa e la guardia del corpo grossa come un bilocale ammobiliato: in fondo dei cattivi non frega nulla a nessuno, il loro ruolo è morire, ed è importante che la loro morte sia tanto più truce quanto più meritevole. In questo campo non c’è nessun giudice migliore di Lundgren, potete crederci.
Tutto il resto è puro genio, sregolatezza, follia. La trama ha un buco così grande che ci si può infilare dentro il seguito, che a sua volta avrà un buco di trama in cui infilare un terzo capitolo. Non è trascuratezza, è una rivoluzione nella scrittura cinematografica dei sequel. La rivoluzione non si ferma certo qui: va citato, ad esempio, la funzione del dialogo, in grado di divenire creatore del mondo immaginifico in cui si svolge la vicenda. “Distruggete il ponte” non è un blooper, non è vero che non ci sono ponti in tutta l’isola vista finora, nel momento stesso in cui viene pronunciato quel ponte da qualche parte esiste, e va distrutto, per dio. Non manca nemmeno il tocco artistico, il piano metareferenziale su cui si svolge la scena più attesa del film, il menage a trois in cui Stallone, Schwarzy e Willis interpretano contemporaneamente se stessi e il proprio personaggio. Quale altro film d’ora in avanti potrà fare a meno della tecnica con cui Sly comunica allo spettatore la conclusione di ogni scena, ovvero uno stacco sul suo personaggio mentre si impegna in un’espressione buffa o una mossetta per catalizzare l’attenzione?
Il risultato dell’amalgama è il più gigantesco WHAT THE FUCK mai visto all’uscita da un cinema. Qualcuno potrà dire che è conseguenza della mancanza di senso delle decisioni prese dai personaggi sullo schermo, altri lo imputeranno alla tristezza delle battute, i più attenti allo strano effetto del sangue aggiunto in digitale durante la post-produzione. Non credete a nessuno di loro. Quella che ornerà il vostro volto sui titoli di coda sarà l’espressione di un uomo che finalmente sa cosa vuole da un telo e un proiettore.
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