Nel blu dipinto di blu - { Another Green World, La storia siamo noi }
aries, Mercoledì 27 Agosto 2008 @ 01:45

C’erano una volta l’ottimismo e gli anni ‘80.
C’era una volta una software house tanto goffa quanto testarda, tanto sbadata quanto appassionata.
C’era una volta un’ottimista SErvice GAmes, società giapponese dalle origini a stelle e strisce, connubio facilmente riscontrabile in qualsiasi prodotto della sua epoca d’oro: il sogno americano filtrato dallo spirito ingenuo e sognatore della creatività nipponica.

Ma soprattutto, c’era un’epoca in cui i videogiochi, lungi dall’essere un prodotto davvero underground, ma non contaminati totalmente dalla massificazione attuale, erano terreno ancora fertile per la candida fantasia di designer inconsapevoli e sognatori. Certo, c’era già stato Blade Runner. C’era già stato il cyberpunk. C’erano già stati Alien, gli horror-movie, persino i primi metallari. Ma importava poco, il mondo era diverso, non c’era internet, esisteva ancora la provincia ed il tempo era più dilatato. Ma, più di ogni cosa, c’era il bitmap, ovvero c’era un filo diretto fra il disegno e l’implementazione, una limitata possibilità espressiva che lasciava molto al creativo e obbligava, volenti o nolenti, a scelte da prendere in prima persona, senza la mediazione di standardizzati software fordisti.
SEGA, consciamente o meno, prese una posizione: rispecchiare i sogni di quegli anni e farne un marchio di fabbrica.

Si può dire tanto di SEGA, della sua incapacità commerciale, della sua inadeguatezza nel processo di sdoganamento dei videogiochi, delle sue continue mosse false, ma una cosa va ammessa: SEGA ragionava da appassionata di videogiochi. Gestì il 32X come ciascuno di noi gestisce un acquisto sbagliato, buttava in pista giochi su giochi coprendo ogni genere che il giocatore segaro potesse desiderare, si gasava degli addon come un drogato di shoot’em up davanti al power-up. Aveva la funari tipicamente giapponese per le cazzatine di contorno e per ciò che sembrava avveniristico: ma chi altro poteva pensare il Gundam[1]? E le VMU? E Segagaga? Di fatto fu proprio questa euforia totalmente slegata dalla lucidità commerciale a portarla alla rovina. Amava i giochini elettronici, lo si vedeva ovunque, amava soprattutto il mondo che aveva creato, semplice ma inequivocabile, colorato, solare, brillante.

Forse i giocatori non se ne resero conto nel breve periodo, forse si dava tutto per scontato: SEGA era talmente grande e onnipresente che una sua scelta poteva essere scambiata per una caratteristica propria dell’industria tutta. Certo, la corrente era abbastanza diffusa nel Paese del Sol Levante (forte di una tradizione anime che puntava spesso su questi aspetti) e molte software house adottavano un approccio simile, prima fra tutte Capcom (e di riflesso una maldestra SNK), ma nessuna toccò i picchi di costanza Segari e nessuna ne fece una bandiera della società.

Ma guardateli: After Burner, Space Harrier, WonderBoy, OutRun, Sonic. La mano è inconfondibile, l’intento esplicito. Non importa il contesto o il genere, la vera firma SEGA è in quel cielo blu e in quelle nuvole bianchissime, in quella sensazione universale da pomeriggio estivo e spensierato che con tanta costanza quel gruppo di giapponesi si è impegnata a diffondere coi suoi giochi. Non è solo una scelta artistica e commerciale, ha quasi una valenza etica, se mi è possibile scomodare un termine del genere parlando di giochini. Didattica, in alternativa. Sintomo della migliore delle tutele. Come una mamma protettiva, la firma SEGA non era solo indice di qualità ma anche di positività, un feeling  che ha accompagnato una generazione di segari, coinvolgendoli dalle riviste[1] al game over.

Passano le console, e SEGA fa il miracolo: tradurre[2] queste sensazioni in 3D. E di miracolo si tratta, considerando le scarsissime possibilità tecniche degli hardware di allora: non solo non intimidirono “la mamma”, ma anzi ne rinforzarono l’espressività: è la generazione dei Virtua-, dei Decathlete, dei Daytona. Regina degli arcade, ogni suo gioco si riconosceva al primo colpo. Tutto questo fu convertito in modo magnifico sul Saturn, ma col tempo le scarse vendite coincisero con un parziale calo di ispirazione. Si può quasi dire che lo stato di salute di SEGA è direttamente proporzionale alla vivacità del blu nei cieli dei suoi giochi, e questo è il periodo di Nights[3]. Lei incassa il colpo, ma non si dà per vinta: spara bombe a fine ciclo e prepara il botto per il Dreamcast, dove vi è un vero e proprio moto d’orgoglio segaro: potenza grafica, internet, vmu, mille accessori, una pletora di giochi SEGA100% e la chiamata a raccolta delle terze parti nipponiche per supportare il proprio “sogno” (Capcom sempre in formissima, SNK di riflesso). Jet Set Radio, Phantasy Star, Shenmue, Crazy Taxi, persino un jrpg come Skies of Arkadia, oltre ai nuovi episodi delle serie storiche. Non si poteva immaginare console più segara.

Infatti fu l’ultima.

L’abbandono del mercato hardware decretò la fine del sogno segaro. Conversioni tardive e insulse, giochi monchi, un costante declino dei brand storici (v. tutte le porcate fatte con Sonic) o la loro graduale de-segarizzazione, titoli bandiera svenduti al primo offerente e pubblicati sulle console un tempo rivali, talvolta persino ineguatezza tecnica, impensabile per SEGA, per quella SEGA. Ogni ideale è perso, e SEGA finisce in mano a Sammy, che la sfrutta in maniera indegna e distrugge quel che rimaneva della sua reputazione. Obiettivo: guadagno monetario. SEGA non esiste più. Rimane un morto che cammina, uno zombie totalmente privo di (i/a)spirazioni, che pubblica porcate su porcate e che non si decide mai a compiere il definitivo, e auspicabile, harakiri. A nulla servono le nuove versioni dei titoli storici: Virtua Fighter per quanto possa piacere non è più un gioco SEGA, Yakuza non lo è mai stato e su Nights per Wii preferirei stendere un velo pietoso.
Si potrebbe azzardare che SEGA abbia trascinato con sé nella tomba un certo spirito di un tempo, qualcuno potrebbe commentare che l’ordine va invertito, in ogni modo sono evidenti gli effetti negativi su Capcom, snaturata nell’animo[4] (e di riflesso SNK), e su Namco, che senza la rivale storica che ha sempre inseguito e che le ha sempre insegnato a fare gli arcade sì è ridotta a includere Darth Vader e Spawn in Soul Calibur.

E’ stato tutto inutile?
Nient’affatto. Abbiamo giocato grandi giochi, abbiamo sognato e imparato a vedere il mondo a brightness+100. E, qualcuno, sembra intenzionato a riproporre questa visione segara…


Note

1. V. rivista nei P.S.

2.

3. No, non ne sono un grande estimatore.

4. Le verrà sicuramente dedicato un articolo, più avanti nel tempo.


P.S. Qualche extra gustoso: l’aria che si respirava sulle riviste, e i luoghi narrati in quelle stesse riviste visitati esattamente un anno fa. Nostalgia canaglia…


3 commenti a “Nel blu dipinto di blu”

  1. LPf

    I wanna flyyy sky hiiigh,
    Let’s gooo togetheeer,
    I wanna flyyy sky hiiigh,
    Let’s gooo togetheeer,
    I wanna,
    Yeah, hee, ooh,
    Yeah, hee,
    Flyyying hiiigh,
    Feeliiing goood
    Blue, blue skies,
    Blue, blue skies I see.

  2. shinichi

    Bello. Tutto vero. Perchè “Snk” sempre fra parentesi? Lo so, lo so, lasciamo perdere. Comunque uno scorcio della Sega dai cieli blu si è vista in Outurn 2. Forse Yu Suzuki è l’unico a non essersi ancora rassegnato.

  3. LPf

    Chissà che farà ora. Sicuramente ha fatto bene a togliersi dalle balle, anche se vecio e stanco. Se non altro ha preso le distanze da questa Sega. In esilio devo andare. Fallito io ho.

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