A Graphic Adventure Story - { Curia, Delibere }
saarek, Lunedì 15 Giugno 2009 @ 11:10

Monkey Island 2 fu il primo gioco, nel ’91, a sfruttare l’innovativa tecnologia della scansione per i suoi fondali. Baciati dallo stile di Steve Purcell, i palcoscenici della seconda avventura di Guybrush Threepwood marcarono a fuoco l’era d’oro delle avventure grafiche e contribuirono nel conferire al simulatore di pirateria di Ron Gilbert il titolo di miglior gioco del genere per anni, alcuni sostengono per sempre. Concepite come teatri nei quali recitano degli attori e caratterizzate da un ritmo lento e meditativo, le avventure grafiche si prestano particolarmente al ruolo di vetrina contemplativa e, per chi apprezza queste caratteristiche, A Vampyre Story (AVS d’ora in poi) ha rappresentato un sogno proibito fin dal suo annuncio. Opera prima di quel Bill Tiller già responsabile della superba direzione artistica di Monkey Island 3, il gioco d’esordio di Autumn Moon Entertainment ha lasciato che gli avventurieri di tutto il mondo fantasticassero sulle immagini dei suoi fondali bidimensionali e disegnati a mano per anni.

La fittizia quanto demenziale Draxsylvania di AVS è suggestiva e traboccante come le creazioni di Howard Pyle (artista famoso per le sue illustrazioni piratesche), nonché accattivante e tenebrosa come lo stile di Dean Taylor (Nightmare Before Christmas). Bill Tiller ne ha creato l’ambientazione con eccellente abilità tecnica e superbo gusto visivo, dando vita a questo borgo della fine del diciannovesimo secolo con il suo sapore unico. Inclinazioni e gusti personali a parte, è innegabile la qualità, la cura e l’amore riposto in ognuno dei fondali. L’arte di Tiller marchia AVS esattamente come quella di Purcell segnò Monkey Island 2 ed è talmente ispirata che assurge a protagonista, spesso oscurando chi questi palcoscenici dovrebbe dominarli con la propria recitazione.
Mona de Laffite è il vampiro protagonista di questa storia. Un tempo cantante d’opera parigina, Mona si trova prigioniera nel castello del barone Shrowdy von Kiefer, un basso e poco carismatico nosferatu che l’ha rapita e trasformata in una creatura della notte. La premessa alla base di AVS è tutta qui e, per quanto semplice, è sufficiente all’incipit di un’avventura grafica. D’altronde chi avrebbe mai potuto affermare con sicurezza che “Mi chiamo Guybrush Threepwood e voglio diventare un pirata!” sarebbe stata la base di una delle avventure più belle e meglio raccontate di tutta la storia dei videogiochi?
Mona, con il suo accento più svedese che francese, risulta un po’ petulante all’inizio, la sua voce acuta sbigottisce al primo impatto, ma il suo carattere dolce e deciso allo stesso tempo, i suoi modi e la sua convinzione nel non essere un vampiro (!?) riescono a farla perdonare di tutto. Chi invece buca lo schermo con la sua interpretazione è Froderick, il pipistrello che Mona si porta a spasso, la classica spalla comica che sottolinea con una battuta ogni circostanza, specialmente quelle in cui fa risaltare la natura vampiresca di Mona. Il rapporto fra questi due personaggi è la chiave di AVS: oltre a fornire un comodo veicolo per fornire indizi al giocatore, il loro conversare, discutere e scherzare è caratterizzato da una sceneggiatura che da sola vale il prezzo del gioco (per altro bassissimo, sui 15€). Le battute non sono mai scontate, riflettono sempre il carisma dei personaggi e aiutano a delinearli man mano che passa il tempo. Dopo qualche minuto si è così assuefatti al sarcasmo di Froderick che diventa impossibile resistere all’esaminare tutti gli oggetti per sentire cosa Mona e il suo amico cieco hanno da dire e si tratta sempre di qualcosa che non ci si aspetta, qualcosa d’ingegnoso e divertente. Era da Maniac Mansion 2 che un’avventura grafica non azzeccava quest’umorismo demenziale e ricercato allo stesso tempo, marchio di fabbrica della LucasArts di allora!
Tutti i personaggi, ad eccezione del barone Shrowdy, sono doppiati egregiamente, con alti e bassi in alcuni casi, ma sempre supportati da una sceneggiatura di prim’ordine. Ciò che ne spegne la vitalità sono le animazioni. E’ un vero e assoluto peccato che Autumn Moon non sia riuscita a fare l’ultimo sforzo, tecnico e artistico, per dare vita a questi personaggi, per trasformarli da oggetti, seppur con una grandissima personalità, in persone (o non morti, o animali parlanti, gargoyle od oggetti stregati…). Durante i dialoghi le bocche si aprono e chiudono come facevano quelle dei robot negli anni ’50 (o quelle di tanti giochi odierni), le animazioni delle posture sono tecnicamente amatoriali e artisticamente sprovviste della benché minima recitazione e spesso sono proprio assenti. Sommando a tutto questo il fatto che, purtroppo, i personaggi sono tridimensionali e persino modellati male e con pochi dettagli, il risultato sono dei brutti modelli 3D che scivolano, si muovono innaturalmente e si stagliano su sfondi talmente stupendi da risultare impietosi verso i loro abitanti.
Se è vero che realizzare i personaggi in 2D e animarli a mano avrebbe richiesto tempo e fondi fuori dalla portata della neonata e indipendente Autumn Moon (e di quasi tutte le software house del mondo), è altrettanto vero che qualsiasi hardware odierno, anche il più antiquato, avrebbe permesso a un gioco sostanzialmente bidimensionale di gestire agilmente dei personaggi tridimensionali molto più dettagliati; forse Tiller dovrebbe regalare una copia di Resident Evil Rebirth ai suoi collaboratori.

Perdonabile? No, ma ciò non toglie che nella somma che compone AVS ci siano altri valori, come il gioco vero e proprio e le avventure grafiche, nella loro essenza, sono i loro enigmi. AVS è un’avvetura LucasArts. Lo è nell’approccio, che segue quello definito da Ron Gilbert nel suo famoso documento “Perché le avventure grafiche fanno schifo” redatto prima di Monkey Island, lo è nella presentazione degli enigmi, lo è nell’interazione. Esaminare oggetti, parlare con personaggi, spremere il cervello e capire come applicare a un dato problema una soluzione ingegnosa, questo era ciò che si faceva nelle avventure LucasArts ed è ciò che si fa in AVS. Gli enigmi, salvo un paio casi, sono logici, ben congegnati, divertenti da risolvere e integrati nel tessuto narrativo in modo da non risultare ostacoli, ma momenti dell’avventura che si sta vivendo.
Il gioco può essere idealmente diviso in due parti: nella prima si è confinati nel castello Warg con l’obiettivo di fuggire, nella seconda invece si è liberi di esplorare Vlad’s Landing, il villaggio vicino al castello. La prima parte non segue prettamente i dettami di Ron sulla costrizione del giocatore (quelli secondo i quali il giocatore va lasciato libero di approcciare i vari enigmi e non costretto ad affrontarli uno dopo l’altro) e infatti risulta innaturalmente claustrofobica: sebbene Mona sia effettivamente prigioniera e il castello un luogo molto grande e pieno di ambientazioni differenti, è innaturale che tutti gli enigmi siano concatenati e vadano risolti secondo uno schema fisso; il giocatore è sostanzialmente intrappolato in una scatola alla ricerca della chiave per uscirne e, una volta aperta, si ritrova in un’altra scatola alla ricerca della chiave successiva. Sicuramente la ricerca di queste chiavi è divertente (menzione particolare per gli enigmi inerenti al laboratorio segreto), ma restano comunque troppo lineari.
Bill deve decisamente farsi le ossa come game designer, ma le prospettive sono ottime, perché nella seconda parte butta il giocatore in un’ambientazione libera (e, incredibilmente, ancora più bella da vedere di quella precedente) come un villaggio e dà al giocatore tre obiettivi principali da portare a termine liberamente. L’intreccio non è complesso come quello che dovette sbrogliare Guybrush per trovare i pezzi della mappa di Dinky Island o quello che vide impegnati Bernard, Laverne e Hoagie nel paradosso temporale di Maniac Mansion 2, ma è indiscutibilmente un buon inizio. Gli enigmi sono divertenti, ben architettati, mai scontati e si basano sui limiti e le capacità classiche dei vampiri: repulsione per croci e aglio, succhiare il sangue, impossibilità di entrare in una casa senza invito, tutti i cliché sono sfruttati in maniera creativa.
In questa sezione il gioco tocca il suo apice in tutti i sensi, si vorrebbe continuare per almeno altre dieci ore d’intrattenimento, ma non è possibile dato che AVS s’interrompe bruscamente, lasciando il giocatore con la promessa di un secondo capitolo (che per la cronaca è già in sviluppo). L’espressione “amaro in bocca” non rende giustizia alla sensazione che AVS lascia durante i titoli di coda.

AVS trasuda dello stile LucasArts, è evidente, ma a volte anche eccessivo: se l’approccio e le citazioni dei giochi mitici della casa californiana sono piacevoli, la reiterazione degli enigmi e delle trovate di un tempo risulta un po’ povera e priva di slancio, come se nella paura di sbagliare Tiller avesse preferito andare sul sicuro e riutilizzare le lezioni imparate lavorando a braccetto con Ackley e Ahern (a loro volta figli diretti della sacra triade Gilbert, Schafer e Grossman ed essi stessi colpevoli d’aver battuto in Monkey Island 3 la strada creata dai tre mostri sacri nei giochi precedenti).
A Tiller va però riconosciuto anche il tentativo di proporre qualche innovazione: il pensiero creativo. Spesso, tentando di raccogliere un oggetto, Mona dice che sarebbe stupido portarselo dietro dato che è pesante e non c’è nessuna ragione apparente per farlo, ma che si ricorderà dov’è. L’idea di quell’oggetto e del luogo dove si trova entra a far parte dell’inventario e questo pensiero può essere utilizzato in seguito come un oggetto vero e proprio.
La cosa intrigante è la possibilità di utilizzare questi oggetti virtuali con oggetti reali in grado di modificare le idee di Mona. In un punto del gioco Mona si ricorda di una pala in un certo luogo, quindi l’idea della pala entra a far parte dell’inventario. In seguito, utilizzando quell’idea con una fornace, Mona cambia il semplice pensiero della pala in quello di una pala arroventata. Nel momento in cui si rende necessaria una pala arroventata è sufficiente usare quell’idea nell’inventario per far si che Mona esegua tutti i passaggi necessari alla realizzazione del comando. Tutto questo sembra molto innovativo e stimola l’immaginazione nei possibili impieghi in enigmi contorti, ma purtroppo presenta due grossi problemi: il primo è che Mona si “teletrasporta” (diciamo che scompare e riappare in una vampiresca nuvola di fumo) nei luoghi necessari rendendo pretestuoso il fatto che questi oggetti siano troppo pensati da portarsi dietro e il secondo, ben più grave problema, è che questa meccanica viene sfruttata si e no un paio di volte nell’intero gioco.Un’altra occasione sprecata che, si spera, riuscirà a sbocciare nelle prossime produzioni di Autumn Moon (e considerando gli imminenti AVS2 e Ghost Pirates of Voojoo Island le possibilità d’impiego sono a dir poco vaste).

Speranza, un sentimento ben radicato negli appassionati di avventure grafiche d’oggi e ce ne vuole tanta per sopravvivere in questo mondo fatto di armi e muscoli. La speranza è quella che il genere non muoia e i tentativi più o meno felici di TellTale, Autumn Moon, Fusionsphere, Kheops Studio e Wizarbox sono la dimostrazione che il sentimento è ben riposto. C’è la speranza che escano avventure di qualità e, sebbene più difficile da soddisfare, anche in questo caso il panorama è confortante. Infine c’è la speranza che Bill Tiller e la recente aggiunta al team Larry Ahern sappiano far fiorire AVS nei prossimi capitoli (magari rettificando gli errori grossolani di cui sopra, aggiungendo sostanza e il supporto al widescreen dannazione!) e soprattutto riescano a rinvigorire l’approccio LucasArts al genere, quello che l’ha reso grande ed eterno, quello che merita ben più di uno stupro grafico in favore di una marchetta alle console.
In sostanza AVS va comprato (perché costa poco), va giocato (perché è divertente) e va goduto (perché stupendo da vedere). AVS infonde speranza.

saarek


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