Quella villa accanto al cimitero - { Curia, Riesami }
Darish, Lunedì 20 Ottobre 2008 @ 12:40

Correva veloce l’anno 1996, proprio mentre mi stavo godendo, tardivamente direi, il Super Famicom. Il mio corso videoludico sarebbe proseguito candidamente con la console Nintendo, se non fosse piombata, come un fulmine a ciel sereno, la Playstation e Bio Hazard/Resident Evil. La piattaforma Sony riscosse un successo clamoroso ai tempi, tanto che tutti, sviluppatori nipponici compresi, vollero salire sul carrozzone. Un pò per l’inadeguatezza dell’hardware nel gestire il 2D, un pò per la naturale eccitazione verso le nuove possibilità offerte dai poligoni, molte softhouse fecero uno dei salti più ardimentosi della storia videoludica. E una di queste era proprio Capcom. Anziché porting dei loro leggendari coin-op, o platform su licenza, fu presentata quello che a tutti gli effetti sembrava un’imitazione clamorosa di Alone in the Dark. Una mossa diperata? No, un pezzo di storia…

In realtà, col senno di poi, BH era di molto superiore ad Alone, sia in termini di gameplay ma, soprattutto, atmosfera. E’ questo l’elemento che ha sempre rappresentato il motore propulsivo del capolavoro Capcom. Un’atmosfera senza eguali che era in grado di coniugare l’attitudine al best seller con la freschezza di un cult di serie B. A partire dai dialoghi esilaranti quanto improbabili, e, cosa più importante, il fatto che facesse davvero paura. Merito dell’enorme patrimonio ereditato dagli zombie movie di George Romero, eterna musa ispiratrice che instaurerà un vero rapporto amore-odio col regista e la sua casa di produzione. L’uscita del gioco fu un colpo di incalcolabile densità, un successo clamoroso che contribuì non poco alla diffusione della macchina Sony. A pieno diritto aggiungo, era la vera KA nuda e cruda, quella che ti fa aprire il portafogli.

Io francamente non lo volevo fare, ma complice il genere da me amatissimo, e le innumerevoli leggende metropolitane edificate intorno a villa Spencer, dovetti cedere ben presto. Non so se vi è capitato, ma non esiste cosa più devastante dei commenti trasfigurati dai cervelli affumicati dei vostri amici. Un pò come ai tempi di Profondo Rosso del maestro Argento, che non volevi vedere perché avevi paura. E il fido amico che ti raccontava “quella scena incommentabile”, di inusitato terrore, lo shock della vita, ma che quasi mai corrispondeva a quella effettiva del film. Mitico l’aneddoto che mi fu portato da un amico facoltoso, che ovviamente aveva console e disco usa, pagati cifre proibitive, per essere il primo e spoilerare come un troll sudato. Una cosa del tipo “Vedi, te sei in questa casa piena di zombi, ma sei intrappolato, non puoi scappare… L’unica via è uscita attraverso i sotterranei, ma poi scopri che là sotto c’è l’inferno!”. Io, che ero più fritto di lui, avevo ulteriormente deformato la realtà dei fatti, immaginando la repubblica dello schifo nascosta sotto le fondamenta, modello Poltergeist, quando poi alla fine trovavi il famigerato laboratorio fonte di tutti i mali. Simpatiche amenità che contribuirono ulteriormente alla nascita del mito.

Il gioco era un crescendo inarrestabile di tensione, orchestrata con precisione chirurgica da uno Shinji Mikami in pieno stato di grazia. Dalle musiche, realmente inquietanti, a vere e proprie bastardate da cardiopalma (chi ha detto la scena dei cani?), con le quali lo stesso autore giocherà nell’altrettanto mitico remake su Gamecube. L’incontro con il primo zombie non si dimentica, così come la difficoltà nel gestire i movimenti di personaggi legnosi attraverso inquadrature fisse, che negavano sistematicamente la comprensione dello spazio circostante. Eppure tutto contribuiva ad accrescere il pathos, dal momento che, quasi privati della vista, si rendeva necessario appoggiarsi ad altri sensi, come l’udito, per riconoscere le creature dai rumori e grugniti splendidamente caratterizzati. In un contesto così definito e soffocante, la sospensione dell’incredulità era spesso minata dai naturali limiti dell’hardware, con i cadaveri dei nemici che scomparivano magicamente, o i loro pattern che venivano resettati ad ogni rientro nelle stanze. La penuria di proiettili suggeriva la fuga come soluzione, come si addice ad un vero survival horror, ma fu l’idea malsana dei “magici bauli” a donare al gioco un’indole infame, che costringeva a complesse equazioni mentali per ottimizzare il backtracking nella casa. Obbiettivo: incappare il meno possibile nei letali hunter, rettili antropomorfi in grado di uccidere con un sol colpo. In realtà, e questa era una cosa che mi faceva impazzire, la minaccia nasceva dalla paura di morire, più che l’effettiva pericolosità di queste creature. Ben presto si scopriva che era molto più produttivo zigzagare tra gli hunter, piuttosto che puntare l’arma contro di loro, azione che triggerava la famosa zampata alla testa, con decapitazione annessa. Insomma, pensare alla morte la rendeva proporzionatamente più effettiva.

Questo era il pregio più grande di Bio, non mi stancherò mai di dirlo, l’atmosfera a mille, che ti portava ad esorcizzare la paura indotta dai nemici, trovando particolari ridicoli che potessero stemperare l’angoscia. In tal senso il vero capolavoro era rappresentato dal Tyrant, il boss finale, in puro spirito nipponico, il culmine ideale di tutti gli incontri deliranti vissuti nella magione. Una montagna dall’aspetto ripugnante, un moderno Frankestein silente, veloce e letale, poi diventato star più o meno fissa della saga. Ma il primo Tyrant era veramente un’altra pasta, dalla sua violenta uscita dalla cella del laboratorio, alla ribellione col padre-creatore Wesker, all’epico scontro finale in salsa hollywoodiana, non perdeva mai in carisma, incuteva timore come pochi altri nemici nella storia videoludica, e neanche dopo averlo letteralmente sbrindellato con il famigerato lanciamissili ci si sentiva del tutto tranquilli. Meglio di così…

Leggendari i tagli attuati nella versione americana, che ridimensionava sensibilmente la fantastica introduzione girata con attori in carne ed ossa, ma anche le cut più splatterose, per non parlare della censura a Chris Redfield nell’atto di accendersi una sigaretta… Insomma, fu un vero pastrocchio che rese la versione nipponica una piccola gemma da collezione.
La saga non raggiungerà mai più simili picchi, se non con il menzionato remake, ma questa è un’altra storia…

Uacciaut, iz a monsta!!!


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