L’urlo del superstite - { Omega Zone }
Darish, Sabato 18 Ottobre 2008 @ 12:27

Alla ricerca della purezza perduta. Questo l’incipit di oggi dettato dal mio fido Euclide. E il candidato ideale è un vero superstite, come la sua più nota creatura. Hans Reudi Giger, classe 40, il visionario creatore di Alien, con la sua personalissima visione di sesso, metallo e morte.
Ispirato dai biomeccanoidi del suo Necronomicon, quello che poi diventerà genericamente “Alien” è un concentrato di genio oscuro che le major non potevano fare a meno di capitalizzare. Già era capitato con il gruppo musicale Emerson Lake & Palmer, che commissionò all’artista la copertina dell’album Brain Salad Surgery. Ma era solo l’inizio. Presto arrivò 20th Century Fox e soprattutto Ridley Scott, in un periodo fuori controllo, che decise il destino di quella creatura.

Il resto come si dice è storia, ma una storia abbastanza deviata che necessita un approfondimento, underground, come piace a noi. Il primo Alien, annata 79, è un indiscusso capolavoro che riesce a dar fiato ai deliri gigeriani, senza snaturarli. La struttura era quella classica di un survival horror, ma con il surplus dell’ambientazione spaziale, che conferiva un perverso fascino. Paura dell’ignoto, del babau, del mostro che si nasconde nell’oscurità, dentro di noi. Un’iconografia semplice e potentissima, quasi la naturale conversione cinematografica di quelle tavole inquietanti. Ed era lodevole lo sforzo del regista nel negare sempre allo spettatore le fattezze dell’alieno, esclusa la debole scena finale dove la sospensione dell’incredulità andava un pò a castagne. “Alla fine è solo un giocatore di basket dentro uno scafandro di lattice”.

Si, ma la cagarella vissuta fino ad allora era concreta e pulsante. La genesi di Alien partiva da una matrice per niente banale, e nemmeno troppo enfatizzata dagli analisti. Quasi un equivoco, o una beffa. L’astronave aliena scoperta dallo sfortunato equipaggio della Nostromo mostrava una civiltà evoluta, ben più di quella umana. Mentre l’Alien era in netto contrasto, gridava bestialità atavica, un puro, come affermerà anche l’androide Ash. Lui, il sintetico, l’aveva capito.

 

“La sua perfezione strutturale è pari solo alla sua ostilità. Un superstite, non offuscato da coscienza, rimorso, o illusioni di moralità.”

Ma quindi cos’è successo? L’equipaggio è stato sterminato da una sottospecie aliena? Un cane magari? Uno scarafaggio troppo cresciuto? Questo è curioso. Forse nemmeno agli stessi alieni piacevano questi esseri, forse volevano debellarli, forse è una piaga che affligge l’intero universo. E noi con il nostro ridicolo bagaglio culturale, e le navette di latta, ma che cazzo vorremo mai capire? Ma c’è dell’altro. Alien si evolve assimilando il dna del corpo ospitante, e ciò che ne risulta è un ibrido, un qualcosa che può ricordare un umanoide, ma anche una bestia schifosa. Questa era la ragnatela disegnata da Ridley Scott, fantastica direi, mentre l’originale è solo un delirio con esplicite allusioni sessuali. Perché Giger è un puro, un superstite, un cervello fritto come piace a noi. O una testa di cazzo come il suo miglior parto. Certo potete immaginare il nostro esuberante artista che disegna uova che si aprono come vulve fameliche, con dentro un bel facehugger, sesso uguale pericolo, forse morte. Comunque pernicioso e marcio. E l’Alien, con la sua inarrestabile potenza iconoclastica, è materiale da estasi per il cinema, tanto che un capolavoro non bastava, ci voleva una saga che rappresentasse la proverbiale miniera d’oro.

Entra in scena quindi James Cameron, un grande regista che amo moltissimo, ma anche l’estrema espressione del cinema spettacolo, senza freni, un baraccone. Nasce quindi Aliens, dove lo schema base viene ampliato fino a raggiungere connotati ludici. Il plurale non è un caso, l’alieno diventa un esercito che “esce dalle fottute pareti”. La paura evapora, e tutto si riduce a uno scatenato videogame che ripercorre la mappa dell’originale, potenziandolo in ogni sua componente, ma anche trasfigurando la sinistra eredità lasciata da Giger e Scott. Non a caso sono nati infiniti tie in di questo film, e addirittura un cabinato da bar. Ma non tutto era da buttare, Cameron aggiunse alcuni elementi interessanti, ispirati alle scene tagliate dal primo, che approfondiva la natura delle uova. Qui addirittura viene introdotta la figura della regina, l’unica in grado di depositarle. Viene quindi enfatizzata la natura insettoide delle creature, stabilendo nuove proporzioni. Abbiamo a che fare non con l’alieno evoluto, ma l’equivalente di una formica, o un’ape. Una gran bella intuizione, che si aggancia con l’originale e ci dimostra che in fondo, questi esseri forse risultavano fastidiosi anche a quella civiltà apparentemente evoluta che avevamo intravisto su quella famigerata nave. Trovo assolutamente meraviglioso che tutta questa impalcatura narrativa venga edificata semplicemente per giustificare i deliri gigeriani, che certo non avrebbe mai pensato a tutto questo, ma semplicemente ad una roba mostruosa con un enorme fallo sulla testa. Tremenda e irrazionale come possono esserlo gli incubi, la vita, la morte e i lati più oscuri della fantasia. Non è fantastico?

Apprezzo meno le spietate regole dello spettacolo, che devono ampliare la vicenda all’infinito. con la povera Ripley che non riesce mai a godersi quel benedetto sonno criogenico. E che è costretta non solo a morire, ma anche resuscitare come clone, con il dna alterato, e addirittura trovare un sinistro legame genetico con l’Alien. No, per me la saga ha posto solo per la baraonda del secondo capitolo, certo non proprio perentoria. Possiamo eliminare il contributo del tutto forzato di David Fincher, mentre quello di Jean-Pierre Jeunet mostra qualche trovata interessante, ma è troppo virato sul grottesco, una caratteristica incompatibile con l’arte del magnifico svizzero. Lasciamo perdere i crossover con Predator. Ma in fondo siamo pur sempre degli aficionados, e Alien ci manca, quello vero, eccome. Non sarebbe assolutamente sbagliato ritrovare quella purezza originaria, quella paura primordiale, che ci riporti quaggiù, nell’underground, l’urlo del superstite.

Premo invio.


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