Si chiama Lola corre. 1998. La vita come un videogioco. Questo l’incipit dell’opera prima del regista tedesco Tom Tykwer. Un piccolo film che è diventato cult, e che quindi merita un posto d’onore nell’Omega Zone. L’intuizione è tutt’altro che superficiale, e ben poco esplorata. Rendere il gameplay assoluto protagonista di una storia, attraverso un simbolo forte, vitale, colorato. Un’eroina. La scatenata Franka Potente e la sua chioma incandescente corrono per un’ora e mezza, nel tentativo di cambiare il destino. Prestazione fisica e psicologica, non è un caso se quest’attrice crucca sia entrata nella hall of fame delle fantasie maschili underground. Non un’Angelina Jolie che fa Lara Croft. Roba da educande. Ma un personaggio nuovo di pacca che non sfigurerebbe in nessuna interpretazione ludica. E farebbe la gioia del marketing.
La storia è di una semplicità disarmante, ma non è necessaria. D’altronde lo specifica anche uno dei personaggi all’inizio del film: “La palla è rotonda, i minuti sono 90. Fin qui tutto è chiaro. Il resto è teoria!”. Sono le possibilità che contano, quando il gameplay è buttato su carta, è il giocatore a definirne i limiti. Filo conduttore: il tempo. Inesorabile per tutti, per Lola come per il player, il tempo è un coprotagonista carnivoro e inesorabile, che veicola ogni scelta, pensiero e azione. La nostra graziosa fanciulla ha un problema, il suo ragazzo Manni gioca a fare il gangster, ma ha un cervello fritto. Sta chiamando da una cabina telefonica nei pressi di un supermercato. Ha appena perso una sacca piena di quattrini, ed ha 20 minuti per decidere quale scusa inventare al suo capo, o derubare il supermercato.
La seconda soluzione sembra ben più sicura della prima, ma Lola non è d’accordo. Troverà lei i soldi nel tempo prestabilito, è una promessa, ci penserà lei. Stai fermo Manni, non fare cazzate. Rimani in quella fottuta cabina per venti minuti, ci penserà Lola. A trovare i soldi, e vivere felici senza rapine e vittime sulla coscienza. Si, ma come? Forse chiedendo aiuto al padre direttore di una banca. Può darsi. Meglio muoversi, i pensieri consumano tempo. E quell’orologio frulla sempre troppo veloce. Lola deve esserlo di più, ecco che si getta nelle caotiche strade di Berlino, a perdifiato, correre senza fermarsi mai, trovare i soldi e raggiungere Manni. E sbloccare l’obbiettivo.
Ma in fondo, non è sempre la stessa domanda? E non è sempre la stessa risposta?
Alternato da sequenze in animazione, bombardato da una soundtrack techno ansiogena e pulsante, dello stesso regista. Girato con la filosofia del poligono, fast motion, zoomate, dinamismo da videoclip senza il fastidio di un videoclip. Il film presenta tutti i pg prima di incontrarli, perché questo non è un film, è un videogioco. Quindi mano su quel pad. “I wish i was a person with unlimited breath “, canta Franka tra le note di quel delirio digitale. Magari. I polmoni bruciano, l’acido lattico pompa e fa male, ma Lola è una vera dura, non c’è tempo per soffrire. Se solo non le avessero fregato il motorino… Durante la sua folle maratona incontra gente, cambia vite, situazioni. Come ogni essere umano che interagisce con quell’incomprensibile meccanismo chiamato destino, dipinto fulgidamente da una serie di Polaroid che descrivono “ciò che accadrà”.
Ma le cose vanno male, Lola non trova i soldi, arriva da Manni, rapinano il supermercato, arriva la polizia, Lola viene uccisa. Fine del film? No, qui c’è gameplay, è un’opera sul gameplay. Sono rimaste altre vite da consumare. E le regole le decidiamo noi. Stop. Lola riapre gli occhi, cosa ci fai riversa in terra? C’è un problema, muovi il culo. E il loop riparte, Lola riparte, ripercorre lo stesso itinerario, incontra le medesime persone, ma cambiano gli esiti, cambiano le Polaroid. Perché Lola ha reminescenze del suo precedente tentativo, comincia a capire, si evolve. Mai ripetere gli stessi errori, esiste sempre una soluzione. Esistono infiniti mondi. Ad Euclide il film piace, perché, come tutti i videogiochi, è un colorato, baloccoso esperimento, e meglio ancora, senza pretese da spaccabotteghino. Budget da b movie, produzione artigianale, freschezza, spontaneità, voglia di fare. Ancora bambini cattivi. Proprio come Ai Margini. La mancanza di un filo logico, la trasfigurazione della realtà sono elementi deleteri per il cervello razionale, ma è pura gioia per quello del player. E così gli eventi si ripetono per ben tre volte, come le vite di un videogioco, finché la nostra eroina non trova finalmente la soluzione al problema. E vissero tutti felici e contenti, grazie al gameplay.
I believe!
Premo invio.