Non ne ho mai fatto mistero, ho amato alla follia questo gioco prima ancora di averne visto dei filmati o di averne capito la tipologia di gameplay. L’esplicita volontà di DICE di abbandonare il look sanguemmerda dominante negli ultimi anni in favore di una spiccata solarità non poteva che trovare in me uno strenuo sostenitore, e gli screenshot con candidi grattacieli che si stagliavano su un Cielo Blu Sega™ così affini ad alcune foto che ho scattato lo scorso anno in quel di Tokyo non facevano altro che confermare questa comunione di visioni.
La città dipinta in Mirror’s Edge è luminosa, pulita al limite dell’asettico, quasi simbolica nella rappresentazione, ed è il frutto di un rigido controllo da parte delle autorità che, per mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica, hanno deciso di sacrificare la libertà individuale delle persone. Faith è una runner, un’atleta che corre e salta fra i palazzi consegnando informazioni a clienti con la necessità di non essere intercettati dalle forze dell’ordine. La tecnica della protagonista è liberamente ispirata alle movenze del parkour, disciplina sportiva oramai sdoganata da spot pubblicitari e videoclip, e si spinge un poco oltre alle effettive possibilità umane, senza mai apparire del tutto incredibile. Tutto il gioco è visto dalla soggettiva di Faith e pone l’accento proprio sulle sue capacità atletiche, strumento fondamentale per superare i numerosi ostacoli che costituiscono la principale sfida del titolo. Questo può essere visto come una miscela di racing game, platform e action in prima persona: passare da un tetto all’altro nel minor tempo possibile, trovando la via più breve e riuscendo a superare illesi i nemici è il principale obiettivo dei vari livelli proposti. Ci sono anche fasi di combattimento, sia a mani nude sia con armi da fuoco, ma costituiscono un elemento secondario ai fini del gioco.
Il titolo DICE trova il suo maggior punto di forza proprio nel concept e nell’approccio volutamente “snello”. Lo schermo è totalmente privo di HUD e indicatori (eccezion fatta per un piccolo pallino al centro della visuale), lo stato di salute è direttamente proporzionale alla saturazione della visione e non si sbloccano abilità trovando power-up nascosti dentro delle casse: i runner sono esseri umani e l’unico aumento di statistiche sarà costituito dalla maggiore dimestichezza con i comandi e dall’abilità nel trovare nuove vie del giocatore esperto. E’ stato svolto un grandissimo lavoro di ottimizzazione nella resa della visuale in prima persona, trovando il miglior compromesso fra immersività e piacevolezza dell’esperienza: la sensazione “di esserci” è fortissima e il sistema di controllo, ottimamente studiato e persino coraggioso nel suo adibire le funzioni di movimento verticale sui dorsali di sinistra, svolge alla perfezione il suo compito. Muoversi fra i palazzi della città è piacevole e stimolante, e si percepisce la fisicità di Faith, lontana anni luce dalle pistole fluttuanti degli altri giochi in soggettiva, senza particolare fastidio o impedimento nelle acrobazie.
Il gioco si articola in una rigida struttura trial & error, come da tempo non se ne vedevano su console. Si può scegliere la via che si preferisce per andare dal punto A al punto B, ma finché non ci si riesce, magari cadendo nel vuoto o finendo sotto il fuoco incrociato di 3 guardie, si dovrà ritentare e partire dall’ultimo checkpoint. In alcuni punti capita di dover riprovare anche decine di volte, ma la soluzione non è mai inarrivabile e i punti di salvataggio sono automaticamente e generosamente disposti nei punti chiave. Mettiamolo subito in chiaro, non sono fra quelli che ritengono questo approccio sbagliato a prescindere, per quanto non l’abbia amato nei giochi della mia infanzia lo si è giocato tutti allo sfinimento, e in Mirror’s Edge trova un sistema di controllo così ben fatto che, pur nello spezzarsi talvolta inevitabile del flusso di gioco, non fa altro che spronare al miglioramento della propria prestazione.
I casi di maggior empasse si presentano con la necessità di sopravvivere a più avversari. Faith è disarmata per necessità acrobatiche e difficilmente può scamparla se due o più poliziotti le sparano contemporaneamente, per questo è necessario dividere i gruppi di nemici e affrontarli singolarmente, principalmente avvicinandosi e, con l’aiuto di una sorta di bullet time, rubandogli l’arma. L’arsenale comprende pistole e mitragliatrici, fucili a pompa e da cecchino, e le fasi di combattimento, pur non essendo particolarmente approfondite, svolgono dignitosamente il loro ruolo di diversificazione nell’economia di gioco, in ogni caso già graziata da un level design attento alla varietà di situazioni proposte.
Mirror’s Edge non è un gioco breve, è un gioco compatto. Un gioco che ha qualcosa da dire, che sa come dirlo e che lo fa senza sproloqui. La storia dura circa 8 ore ma, considerando le valigie nascoste per la città che sbloccano extra come artwork e musiche, i trofei/achievement e l’ottima modalità timetrial, si arriva a superare tranquillamente le 10 ore complessive. Proprio la modalità gara inoltre è tutto fuorché un’inutile protesi e, affrontando le fin troppo numerose sfide proposte, si comprende la profondità del gameplay e del level design. Va infine detto che proprio la piacevolezza dei controlli e la snellezza della struttura costituiscono un incentivo alla rigiocabilità del titolo che, in tutta sincerità, dovrebbe compiacersi della propria compattezza davanti a una concorrenza priva di pudore nell’allungare il brodo ludico.
Pur potendosi fregiare della miglior direzione artistica dell’attuale generazione (in tandem con l’Orange Box di Valve), il comparto grafico di Mirror’s Edge soffre dei difetti comuni a tutti i prodotti realizzati con l’ausilio dell’Unreal Engine. Ombre portate in bassa risoluzione, ombre proprie quantomeno precarie e soprattutto un dannato e maledetto aliasing presente, checché ne dicano i Pelé da forum, sia su 360 sia su PS3, sia in colore espanso sia in limitato, sia in RGB sia in qualsiasi altra diavoleria voi possiate credere immune alla scaletta. Assieme ad alcune incertezze tecniche minori (lo si vede da lontano, ma il mare in movimento è inguardabile), a un character design non all’altezza e a delle imbarazzanti cutscene in stile euromanga che sembrano disegnate dai ragazzi di Follow the Rabbit (disegni accettabili per delle strip comiche, non per un titolo AAA con queste pretese) questi difetti intaccano un comparto estetico altrimenti sublime e risultano ancora più fastidiosi di quanto non lo fossero negli altri titoli affetti.
Discorso a parte per l’intreccio narrativo: a differenza di quanto dichiarato dai producer del gioco nei mesi scorsi, i personaggi sono assolutamente privi di spessore, i colpi di scena strappano solo qualche risata, la sceneggiatura è ben oltre i limiti del ridicolo (con un linguaggio da giovani alternativi veramente insopportabile) e l’analisi della società distopica è banale e superficiale nel prendere posizione. A questo va ad aggiungersi un doppiaggio italiano da denuncia, con una Asia Argento letteralmente inascoltabile e dalla recitazione piatta e poco convincente. Il resto del comparto audio è invece curato e ben fatto, con musiche elettroniche a base di synth leggeri, perfettamente adeguati all’asetticità stilistica, e credibili rumori urbani.
Spiace però per come un gioco così ambizioso nel comparto creativo arrivi a perdere dignità progettuale in questo modo. Molti sono elementi che potrebbero essere considerati secondari in altri giochi, ma in questo era di fondamentale importanza che ognuno di essi fosse all’altezza degli altri. La trama, scontata e mal raccontata, conferisce all’insieme un retrogusto adolescenziale quantomai fuoriluogo, e le imperfezioni grafiche rovinano alcuni fra gli scenari urbani più belli e ispirati dell’intera storia dei videogiochi.
Non stupiscono le opinioni diametralmente opposte che Mirror’s Edge ha suscitato. E’ un gioco caratterizzato da scelte coraggiose che non possono incontrare il favore di tutti. Come si può proporre una struttura di gioco così oldschool nell’era in cui nessuno vuole rifare la stessa porzione di gioco più di una volta (sempre che si arrivi ad affrontarla)? Come si può fare un platform in prima persona quando nemmeno i mostri sacri del genere hanno osato cimentarsi in un’impresa simile? Come si può arrivare sul mercato nel 2008 con un gioco dal look così solare, pulito e fuori da ogni schema quando la moda del momento comprende shader sugnosi, sangue e ruggine?
Mirror’s Edge ci ha provato, e l’esperimento è da considerarsi un successo, a prescindere dal fatto che non tutti possono apprezzarlo. E’ un gioco che, oltre a divertire, riesce ad espandere gli orizzonti videoludici con una carica innovativa che coinvolge trasversalmente ogni elemento di cui è composto, e che lo rende una delle (poche) esperienze nextgen che a mio modo di vedere vale davvero la pena di provare, nella speranza che altre software house prendano come esempio il titolo DICE e non siano miopi come la critica videoludica internazionale ha dimostrato di essere in questi ultimi giorni, petulante nel richiedere innovazione ma aggrappata morbosamente a stilemi che puzzano di morto da un decennio abbondante.
Nota “a margine”, notate l’amore con cui vi ho scattato e selezionato le fotine (e perdonatemi la griglia del tv che compare in molte di esse, c’ho una canon scrausa).
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