EA ci prende per mano e ci porta nello spazio. Per poi abbandonarci. - { Curia, Delibere }
Esulo, Giovedì 30 Ottobre 2008 @ 16:17

Cos’è un genere, filmico, musicale, videoludico? Verrebbe da pensare ad un insieme di prodotti accomunati da un filo conduttore. Senza dubbio vero, ma per genere possiamo anche pensare a prodotti che si rivolgono ad un pubblico ben definito, prodotti spesso auto-referenziali e chiusi verso spinte innovative. E non è raro vedere generi, videoludici, che scompaiono o rimangono nell’ombra, a volte per  cambi meramente tecnici (come sparatutto o piacchiaduro in 2D), a volte perché non riescono più a dire nulla di nuovo o di interessante. Questo forse è quello che sta passando il genere del survival horror, esploso con i 32 bit, sopravvissuto con la passata generazione, ma ora in declino, simbolicamente orfano della madrina Capcom che ha preferito trasformare una delle sue galline d’oro per non confinarla in una gabbia fin troppo stretta.


Ma come accade spesso, è un emerito sconosciuto a dovere e potere dire qualcosa di importante. E se poi questo sconosciuto arriva per mano della Electronic Arts, troppo spesso associata alla quantità piuttosto che alla qualità, appare fin troppo evidente e scontato lo scetticismo con il quale la massa ha accolto le prime informazioni su questo Dead Space. Ma a poco a poco le cose sono cambiate, il progetto secondario iniziava a risplendere di una crepuscolare luce propria, sufficiente per far scattare l’allerta nei fan del genere survival horror che in questa generazione ad alta definizione ancora non avevano ricevuto il viatico. Merito dei programmatori interni di EA (completamente anonimi) che sono sempre stati parchi con le dichiarazioni, preferendo focalizzarsi sugli aspetti salienti della loro opera che stava prendendo forma. E forma prese.

Dead Space ci arriva nelle mani e già dalla copertina, un braccio troncato fluttuante in un mare di stelle, si capisce che il genere dichiarato latitante e moribondo ha una nuova voce da ascoltare.
Iniziamo il nostro viaggio nell’incubo sul ponte di una nave spaziale con i tre protagonisti della storia, Kendra, Zach e Isaac di cui prenderemo presto il controllo. E già qui inizia il gioco di citazioni e referenze di cui il titolo abbonda, con il nome del protagonista Isaac Clarke fusione di Isaac Asimov e Arthur Clark, due pesi massimi della fantascienza nostalgica. Sullo sfondo la pallida luce nel vuoto di una stella, il pianeta-miniera Aegis 7 e la stazione orbitante USG Ishimura, dalla quale da diversi giorni non si hanno più comunicazioni (e sulla quale è presente la moglie dello stesso Isaac). Scortati da una squadra di soldati, il terzetto attracca alla Ishimura, e l’incubo ha presto inizio. Isaac si trova presto isolato, armato di una lama al plasma, ma costantemente guidato da Kendra e Zach che gli assegneranno dei compiti per uscire vivi. Ed ecco che capiamo a cosa era dovuto il silenzio degli sviluppatori: un motore grafico sontuoso che pennella gli interni della stazione in ogni minimo dettaglio, per poi sfumarli con effetti di luce tra i migliori visti fino ad ora. Ed è proprio l’Ishimura l’indiscussa protagonista di questo gioco, più spaventosa dei mostri che la popolano, con i suoi mille budelli, le stanze riempite di un malsano fumo che diffonde la tetra luce fredda dei neon, i ponti di comando, riempiti di decine di ologrammi, che si affacciano sullo spazio pieno di detriti, le enormi stanze a gravità zero, le parti nel vuoto siderale, dove il suono si attenua e possiamo sentire solo l’affannoso respiro di Isaac collegato alla piccola bombola di ossigeno. Tutto immerso nell’oscurità, con le sue gradazioni, nera come la pece o chiazzata di luci intermittenti.

A fare da contraltare all’Ishimura troviamo il protagonista, chiuso nella sua tuta da minatore, che lo rende goffo e pesante. Raramente mi è capitato di vedere un modello poligonale che trasmettesse tanta presenza fisica su schermo, si ha davvero la sensazione che ogni passo sia uno sforzo nell’alzare quegli stivali di ferro. Poi la torcia collegata all’arma sempre accesa quando siamo in allerta, con la speranza che il fascio di luce che squarcia le tenebre non metta in mostra qualcosa che sarebbe meglio non vedere. E poi ci sono i mostri, il babau nascosto nel buio, urlante, strisciante, fatto di fauci e zanne e tentacoli. Seppur senza evidenti difetti, il bestiario rappresenta forse l’anello debole della catena della paura, lasciando il ruolo da protagonista all’oscurità dell’Ishimura: il senso di deja-vu è notevole, la varietà non eccessiva, la loro genesi si direbbe banale. Peccato veniale, perché nonostante questo si ha il cuore in gola quando si vede l’orda bestiale piombare addosso al protagonista, complice anche la scarsità di munizioni con la quale bisogna convivere.

Se la componente visiva non solo eccelle, ma svolge egregiamente il suo ruolo disturbante, lo stesso vale per un impianto sonoro di primissimo piano. Seppur goduto solamente con un paio di casse stereo, i suoni della stazione spaziale e di qualsiasi cosa ci sia dentro riescono ad avvolgere il giocatore e rafforzano l’angoscia. Il respiro di Isaac strozzato dalla mancanza di ossigeno ci priva della speranza, il rantolo delle bestie nascoste nel buio mette i brividi, se ci fermiamo ad ascoltare il silenzio avvertiamo che in quelle stanze vuote rieccheggia il battito del nostro cuore. Per non parlare degli improvvisi squarci nel silenzio, sconsigliati agli ipertesi. Un lavoro egregio, indice della passione e cura che i programmatori hanno infuso nella loro creatura. Forse non all’altezza il doppiaggio italiano, ma rimane nella media delle produzioni.
Ma in definitiva, cosa è questo Dead Space? Prima di tutto è una splendida citazione a capolavori della letteratura, del cinema e dello stesso videogioco. Il già citato nome del protagonista, il fucile a impulsi che rimanda al marine spaziale di Aliens, la stazione stessa è omaggio al terrificante Event Horizon, le enormi vetrate che filtrano la luce solare ricordano il delirante Sunshine. E poi Doom pare regnare sovrano, con i corridoi stretti e il mostro nascosto dietro l’angolo, oppure la torcia che squarcia il buio come in Silent Hill. E se si scartavetra per bene, eccolo riapparire, il primo Resident Evil, con i suoi punti di ristoro, la sua cassaforte, il suo backtracking, addirittura la necessità di eliminare un parassita dalla serra, i suoi comprimari avvolti nel mistero. E’ proprio con il primo Resident Evil che vanno fatti paragoni, per valutare come si evoluto questo genere: se il capolavoro Capcom riusciva a spaventare grazie ad una formula tuttavia nuova e ad una regia cinematografica, rubando quasi la paternità del genere ad Alone in the Dark, in Dead Space le nuove tecniche visive ci hanno permesso di entrare in stretta empatia con il protagonista. Non più l’astrazione di stare giocando ad un videogioco,ma una accentuata immedesimazione che ci proietta sulla stazione orbitante, in balia di eventi di cui non possiamo e non vogliamo essere consapevoli, cercando di portare a casa la pelle. E allora ben venga la traccia che ci dice sempre dove andare,  poiché l’esplorazione della nave per cercare bonus e segreti, la dimensione ‘gioco’ insomma, stona con la palpabile tensione che si respira. Certo, non è la prima volta che un survival horror ricrea queste condizioni, già trovate nel capostipite di Capcom e vissute in titoli come Silent Hill 2. Ma in Dead Space possiamo ammettere di essere alla massima espressione.

E allora capolavoro? No. La più grande forza di Dead Space è anche il suo gran difetto, essere cucito a doppio filo sulla stoffa del survival horror puro, come si diceva nell’incipit, citazionista e senza reali innovazioni che lo possano spingere fuori dai suoi confini. Ma gli appassionati gridano al miracolo, chi non lo ha considerato fino ad ora può solo provare curiosità per un titolo tanto ben confezionato, ma è possibile che lo lasci da parte per provare avventure a più ampio respiro. Rimane la certezza che perdersi nell’oscurità dell’Ishimura rimane una delle esperienze più terrificanti, ma al tempo stesso più gratificanti, di questo 2008.

pierpo


1 commento a “EA ci prende per mano e ci porta nello spazio. Per poi abbandonarci.”

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