Giocare con le dita è bello ma il piacere orale è meglio. - { Quando sono venuto al mondo i Lynyrd Skynyrd precipitavano in aereo }
ginko, Mercoledì 1 Ottobre 2008 @ 16:21

Fumare e videogiocare, una piaga. Monitor gialli, dita ustionate, frag ingiusti e bestemmie tossite a denti stretti, col terrore che quella cazzo di cicca buchi il pantalone della tuta, frigga la carne e continui la sua strada come l’acido di Alien fino al divano da diciassettemila euro acquistato per poter giocare diciotto ore al giorno senza finire in un letto d’ospedale. L’alternativa è fumare fuori dalla finestra lasciando la gente appesa con l’arrosto fuori portata e le narici gonfie di aroma. E lì piovono merendine. La gente fa un salto in cucina per riempire il vuoto operativo e ingurgita qualcosa che un normale bipede smaltirebbe in una mezzoretta ma per un videogiocatore è un peso eterno, qualcosa che nemmeno i divani in pelle di giaguaro potranno mai consumare.

La resa dei conti incombe, il divano freme e la mia speciale linea di punchin’ ball Lazzaro passa in secondo piano. Non stanno per piovere aggeggi falloidali e quel brusio non appartiene a nessuna invenzione mirabolante. Arriva il pargolo, la progenie tentatrice di quel titolo che ha descritto uno dei più semplici modi di vivere il multiplayer. Non è un mmorpg, non invade tutto il tempo, non è Quake né Halo, non impegna cosi tanto. Pochi secondi e frastornato commenti quello che hai combinato. L’arena mediale recupera gli sport strategici come istanze comunicative, diventa Football e Baseball, alterna l’intenso al vuoto, permette una violenza secca e debordante e costringe a parlarne, costringe a uscire dai corridoi, a guardare, pensare e godere del frutto dell’azione psicomotoria. Gears Of War non è un miracolo ne un semplice baraccone di bump e violenza, è un gioco strutturato, semplice e basato su una strategia riconoscibile, valutabile a prima vista. Gow è semplicemente quello che avrebbe dovuto essere un qualsiasi sport game olimpico da quando esiste internet, da quando anche un gioco indegno ha dimostrato che il partygame sollecita salotto, birra e bamboccio interiore. La parola arrivo è arrivata dopo quattodici anni con la creazione di un’infrastruttura online a pagamento e l’impegno di un dream team impegnato 24 ore al giorno per ottenere qualcosa che si dava per scontato negli anni 50 in quasi tutti i testi di scienza e fantascienza . Scavare non serve, dietro a tutto questo non ci sono le politiche frenanti della vecchia IBM, non c’e’ il dosaggio tecnologico e non ci sono nemmeno strategie di sfruttamento forzato delle vecchie tecnologie. Diavolo, quattordici anni sono un’eternità per implementare qualcosa che esiste da almeno tre decadi. Un oscuro e sporco mistero che avvolge altri segreti, altri fetidi mucchi d’ossa, innominabili piaghe che celano l’incapacità di creare giochi western o di fantascienza e forse, in forma di precipitato antimaterico, è coinvolto anche l’oggetto-concetto che noi datteri identifichiamo con Elite. Un gioco low price, quasi interamente player side, una vera sfida per programmatori parzialmente svincolata dalle meccaniche economicamente suicide di produzione e design, qualcosa che sfuggirebbe alle politiche commerciali più dannose e che probabilmente avrebbe un buon margine di guadagno senza la necessità di accumulare numeri sensazionali.  Un mostro che non sembra in grado di sfuggire alle regole di mercato, se non casualmente, incidentalmente, occasionalmente.

Un sistema di regole irrazionale, folle e intellettualmente disumano, un sistema che rigetta i giochi di ruolo di puro concetto, qualcosa di inspiegabile con tutta la gente che scriverebbe dialoghi a 900 euro al mese che c’e’ al mondo. Senza contare l’insensato aumento dei costi di produzione spesso legato a meccanismi da mercato della moda fatto di spot superflui, spesso nemmeno pienamente visibili, subissato da costi eccessivi legati all’organizzazione di eventi pubblicitari sovradimensionati o peggio allo stipendio ingiustificato di presunti guru, figure prettamente pubblicitarie talvolta persino dannose. Tutte stronzate che alzano i costi sulla base di una spinta sistematica che vende il superfluo come necessario, ammazzano i fondi disponibili, determinano il fallimento in caso di scarse vendite tanto quanto lo sviluppo tecnologico mal indirizzato.  Magagne legate a un processo di visibilità imposto più dalla consuetudine dei meccanismi pubblicitari moderni che derivato da un’effettivo bisogno promozionale. Senza contare le traduzioni, un caos primordiale e incomprensibile che mostra il delirio intersistematico di un mercato privato delle possibilità tradizionali di analisi e previsione, un delirio che coinvolge persino dei banalissimi sottotitoli. Come stupirsi quindi per le balle sulla spendibilità delle carriere via internet, le richieste di gente stra specializzata e una sequela di pretese ridicole. Il tutto condito da figure che affermano di vivere e creare sull’onda della passione ma non spendono dieci minuti per osservare il lavoro dei gruppi di traduzione autonomi, dei programmatori indipendenti o di sfogliare un qualsiasi libro di narrativa per replicare quel nugolo di idee mai sfruttate che giacciono inerti dall’altro lato di un muro che i creativi avrebbero il compito, anzi il dovere di scavalcare, indipendentemente dal risultato di un brainstorming che spesso nemmeno tiene conto delle pulsioni o delle competenze dei soggetti coinvolti. Il tutto senza nemmeno doversi preoccupare di avere un Lead Designer da presentare al pubblico. Muoiono cosi i tanto sbandierati presupposti pubblicitariamente spacciati come fondamenta di questa communication era venduta per l’età del dinamismo e della flessibilità al solo fine di domare quell’angolo di coscienza che ancora cerca di sventrare una gabbia dorata il cui pavimento è ormai costituito da 20 centrimentri di merda. Muoiono le possibilità sotto il peso dei sistemi legittimati, meccanismi che danno sicurezza progettuale ma ammazzano la fantasia progettuale.

Sparandole medie direi che potrebbero essere sufficienti 60 minuti in una qualsiasi università occidentale per trovare 10 programmatori, una stanga che sappia simulare comprensione per le meccaniche ludicotecnologiche e uno stronzo in grado di scrivere nella sua lingua e in inglese. In meno di sei mesi uscirebbe qualcosa che non sarà Gears Of War 2 ma sarà sicuramente più ispirato del 90 percento della melma che ci propinano. Invece dobbiamo aspettare anni per giocare a Little Big Planet o per avere un controller nuovo che sarà sfruttato al cinque percento, conseguenza inevitabile di un moto creativo critico morto e sepolto sotto tonnellate di paure che la gente allontana cercando un ritorno al simulacro di una semplicità emotiva mai esistita. Quale mente pensante accetterebbe la metafora Mario come sufficiente ad allontanare lo spauracchio del videogioco come attività ossessiva, oggi mascherata ancora meglio da presunte movenze che vorrebbero simulare la realtà ma che per i presupposti di semplicità finiscono per essere completamente antitetici alla realtà virtuale vista come sfida moderna per intelletto, ragione, fantasia e sperimentazione del reale. Alla fine ti capitano tra le mani il Live e Gears Of War. Non fanno altro che accorpare una chat a un gioco semplice ma che non fa rumore, non deve riempire tutti gli spazi, deve solo essere incisivo e breve, così quella dimensione immaginaria di libertà strutturale non trova spazio in GTA ma si concretizza in una minuscola rappresentazione oggettiva, occasionale, uno sguardo al pelo dell’acqua, mezzo sotto mezzo sopra. E’ il bar dell’aperitivo che crea gruppo senza squadra di calcio, crea discussione senza vincolo partitico. Quella forma di relax che ha bisogno di attori in grado di dare forma al nulla con la consapevolezza che quel nulla è ed è tutta la vita. Inebriato da una cosi facile accettazione della realtà il giocatore si perde nella sua polinesia e non vede motivo per tornare a dormire, per non mangiare, fumare e bere tutto quello che c’è in casa. Certo l’amaro in bocca rimane, lo stesso GoW produce libertà involontaria, sull’onda di effervescenze occasionali ben lontane dai presupposti letterari e critici che tempo fa cavalcavano l’onda di giochi di ruolo e avventure, un sapore aspro e persistente che per cacciarlo via non bastano un regalo in ritardo, un pò di spazio lasciato al giocatore o un salotto virtuale. Fortuna vuole che tutti questi elementi, per noi figli del caso, siano più che sufficienti a rendere Gears Of War un oggetto di valore, irrinunciabile pur essendo un vero prodotto, qualcosa frutto di un mercato troppo strutturato per concedersi alla fantasia ma che per risparmiare e aumentare il guadagno non può far altro che lasciare spazio ai giocatori, i cosiddetti utenti pigiando sul multiplayer che, almeno in questo caso, trae benefici esplosivi. Una sorta di effetto: tarzan aveva i capelli lunghi ma non era la madre. L’unico dubbio che rimane è quello di non essere tanto stronzo da non avere quel tipo di amico succitato, consapevolmente fatalista, disinteressatamente informato, agnosticamente vitale. In caso contrario GoW rischia di contare meno di un aperitivo al bar.


2 commenti a “Giocare con le dita è bello ma il piacere orale è meglio.”

  1. LPf

    Non ci puoi credere, forse. Diciamo che non è semplice, ma ieri sera ho fumato un intero pacchetto di sigarette giocando a Gears con quei coglioni: 19 per la precisione. E dio sia lodato per l’invenzione del Ventolin perché stamani non respiravo sul serio. Ma come fai?! Gli shooter online son tutto uno stop & go, son pensati per fumare. Come fai? Fai. E senza accorgertene. Ma neanche per il cazzo te ne accorgi…

  2. ginko

    Gow è il peggio, non fa stanze, fa salotti e sport, di notte e se c’e’ il limite di 8 chi è dentro si sente anche minimamente elitario. Dopo un anno senza casa ho due mesi davanti con quel ben di dio pronto ogni sera. Pemmia. Mi spacchio du cazz.

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